Tredici milioni di euro di false fatture, emesse da otto società in mano a uomini accusati di appartenere alla ‘ndrangheta emiliana. Sfornavano le cosiddette Foi: fatture per operazioni inesistenti, al ritmo di 10.840 euro al giorno di media, domeniche e festività comprese, a beneficio di 372 diverse società, o persone fisiche, riceventi.

La novità di questi 13 milioni, rispetto alle migliaia di false fatture già viste nel processo Aemilia, è però che sono “freschi”: non stiamo parlando di vecchie operazioni della cosca ma di movimentazioni illecite portate a segno in tempi molto più recenti, tra l’aprile del 2018 e il marzo del 2021. False fatture che, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, hanno consentito a quell’esercito di 372 società e persone di abbattere le tasse sugli utili e di sottrarre all’erario oltre 2 milioni di Iva: per la precisione 2.057.473 euro.

Il tutto emerge dagli atti di Perseverance, l’ultima operazione antimafia approdata a processo in Emilia Romagna, che ha visto concludersi l’udienza preliminare davanti al giudice Claudio Paris il 9 febbraio scorso. Dei 47 indagati 24 hanno scelto il rito abbreviato, 14 hanno patteggiato la pena e 9 andranno a giudizio a Reggio Emilia, a partire dal 6 maggio prossimo. Perseverance è una indagine piuttosto complessa, che raduna diversi filoni sui quali hanno operato le varie forze di polizia, ma i dettagli sulle false fatturazioni sono fondamentali per comprendere lo stato di salute della cosca nel 2020/2021, quando già da diversi anni tutti i capi storici erano dietro le sbarre.

Delle otto società incriminate, che hanno emesso circa i due terzi dei 13 milioni di euro, cinque erano riconducibili a Salvatore Muto, nato nel 1985 e residente a Reggio Emilia. Secondo la richiesta di rinvio a giudizio dopo l’arresto dei suoi fratelli Antonio e Luigi (entrambi condannati in Aemilia), membri della potente famiglia dei Pipini, era lui ad assicurare “tramite la sua partecipazione ai colloqui in carcere, contatti e scambi di informazioni tra esponenti della cosca detenuti ed esponenti in libertà”. Tutte le imprese hanno avuto una vita molto breve, al massimo due anni. Il record delle operazioni illecite lo detiene la Ellepi.Z Tecnology, che in soli dieci mesi, tra il 31 gennaio e il 25 novembre 2019, ha emesso fatture false per 3,5 milioni di euro.

Le fatture, presumibilmente a migliaia, escono dunque dalle otto società “cartiere” della ‘ndrangheta, ma a chi arrivano? Scorrendo l’elenco di quei 372 diversi destinatari, sia società che persone fisiche, le sorprese non mancano. Il database complessivo ci mostra dodici società che ricevono più di 100mila euro di fatture false a testa e sopra i 200mila euro si trova anche una società sportiva dilettantistica. Il record assoluto è di 1,7 milioni di euro fatturati complessivamente ad una sola impresa. In generale la lista contiene molte aziende che paiono operare (dai nomi) nel settore delle costruzioni e un buon numero di queste è riconducibile al suo titolare. Tra i riceventi anche molte persone fisiche, sia di origine straniera che italiani. Diverse fatture emesse da tre società di Salvatore Muto sono andate ad una cooperativa sociale che si occupa di accoglienza dei migranti nella regione Emilia Romagna. Ma il nome più curioso tra i soggetti che ricevono false fatture è quello del Dipartimento europeo per il controllo degli illeciti bancari, un ente privato che si propone – secondo il suo sito web – di “tutelare sotto ogni profilo gli utenti, cittadini e imprenditori, dai più disparati abusi che ogni giorno subiscono da grandi aziende”. Dalle carte dell’inchiesta risulta che il Dipartimento europeo per il controllo degli illeciti bancari ha pagato complessivamente 33.647 euro di fatture emesse dalle società indagate: per l’accusa erano fasulle.

Nel rito abbreviato di Bologna e nel dibattimento di Reggio Emilia si entrerà nel dettaglio delle accuse e sapremo di più sull’universo delle società e delle persone disponibili a stringere accordi con le società di Salvatore Muto e dei suoi amici. Secondo la Dda il profitto del reato (di falsa fatturazione) era “prevalentemente spartito tra gli associati, anche detenuti”. E per associati dobbiamo intendere “associati alla ‘ndrangheta”. Ma aggiunge pure, sempre la Dda, che con questa attività “si moltiplicava la percezione e la consapevolezza di potersi avvalere della collaborazione dell’imprenditoria locale”. È lo stesso concetto ribadito ad inizio 2022, all’apertura dell’anno giudiziario, dalla procuratrice generale reggente di Bologna, Lucia Musti: “Dobbiamo evidenziare che all’iniziale infiltrazione delle mafie nella nostra regione è succeduto l’insediamento, fino all’attuale radicamento. È evidente che non è più questione di presenza di mafiosi ma piuttosto di condivisione del metodo mafioso anche da parte di taluni cittadini emiliano-romagnoli, imprenditori, cosiddetti colletti bianchi, i quali hanno deciso che fare affari con la ‘ndrangheta è utile e comodo”.

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