16 giugno, 11 ottobre, 2 novembre 2021. Tre date che corrispondono ad altrettanti incontri di vario livello tra rappresentanti americani e russi e che, in poco meno di 5 mesi descrivono la breve parabola di un tentativo di riavvicinamento tra Washington e Mosca conclusosi, però, con un’escalation militare senza precedenti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È una storia di meeting di alto livello tra presidenti che non hanno mai nascosto la reciproca avversione, tra ‘falchi’ ai quali è stato chiesto di trasformarsi, senza successo, improvvisamente in ‘colombe’ e di spie inviate come ultimo tentativo di riallacciare rapporti (o a lanciare un ultimatum) con quello che, nel frattempo, era diventato, di nuovo, il principale avversario a livello internazionale.

L’inizio di questo processo, che ha anticipato di pochi mesi l’escalation militare con l’invasione russa dell’Ucraina, può essere individuato nell’incontro di metà giugno a Ginevra tra Joe Biden e Vladimir Putin. Il presidente americano era in carica da appena 6 mesi, ma i rapporti con Mosca si erano deteriorati già dall’inizio del suo mandato, dopo la stagione di distensione nell’era Trump. A marzo, il capo della Casa Bianca aveva definito il suo omologo “un killer”, mentre tra i due Paesi si stava ormai consumando una crisi diplomatica che aveva portato a espulsioni di diplomatici e soprattutto a un pericoloso, dal punto di vista americano, avvicinamento della Russia alla Cina di Xi Jinping. Un incontro che portava sul tavolo anche altri temi fondamentali, dal Nord Stream 2 alla vicenda Navalny, dall’Ucraina, appunto, agli attacchi cibernetici fino, ovviamente, alle sanzioni alla Russia imposte da Washington. Un tentativo di iniziare a ricucire i rapporti gravemente deteriorati, dopo il ritorno al governo dei Dem americani, che da quanto era trapelato al tempo si era concluso senza trionfalismi.

Appuntamento a 4 mesi dopo, l’11 ottobre, quando a Mosca vola la sottosegretaria di Stato Usa, Victoria Nuland. Non un nome qualsiasi. Nuland è considerata un ‘falco’ tra le file democratiche, sostenitrice della linea della fermezza nei confronti della Federazione russa. Fu lei, da Assistant Secretary of State dell’amministrazione Obama con incarico diplomatico in Ucraina, nel 2014, a pronunciare quelle parole poi finite in un leak diffuso poco dopo in cui sbottò con un “Fuck Eu”, “fanculo la Ue”, parlando con l’allora ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt. Il riferimento era proprio all’indecisione, dovuta alle divisioni interne, dell’Europa sull’assumere un atteggiamento duro nei confronti di Mosca nell’ambito della crisi politica in Ucraina seguita alle proteste di EuroMaidan.

Ma il suo arrivo nella capitale russa venne visto in quei giorni come un importante segnale di distensione. Dal 2019, infatti, Nuland era stata inserita nella blacklist del Cremlino che le era costata un divieto di viaggio nel Paese. Questo travel ban è stato cancellato proprio per permetterle di recarsi in Russia a novembre, dove nell’arco di tre giorni ha incontrato Yuri Ushakov, ex ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergei Ryabkov, viceministro degli Esteri, e Dmitrij Kozak, vicecapo dello staff presidenziale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano compiuto il proprio passo in avanti togliendo dalla lista dei russi colpiti dalle sanzioni diversi cittadini della Federazione proprio pochi giorni prima dell’arrivo di Nuland nel Paese, come comunicò al tempo la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.

Le premesse erano, quindi, tutt’altro che negative, ma sull’esito dei vertici, ancora una volta, le dichiarazioni finali erano state di basso profilo. Da Washington si era parlato di incontro positivo, ma progressi concreti, di fatto, non sembrano essercene stati. Anzi, secondo alcuni osservatori è stato proprio in quell’occasione che i tentativi di pacificazione tra i due Paesi sarebbero di nuovo naufragati. Lo testimonierebbe anche il terzo e ultimo incontro, di un valore ben diverso, del 2 novembre, nemmeno un mese dopo. In quell’occasione, a volare a Mosca non è stato un diplomatico, bensì il direttore della Cia in persona, William Burns, che, facendo valere il suo passato da alto diplomatico, ha incontrato un alto consigliere del presidente Putin, Nikolai Patrushev, insieme al sottosegretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici Usa, Karen Donfried. Anche in questo caso, i funzionari Usa fecero sapere in maniera informale che si trattava di un incontro sulla scia del processo di normalizzazione avviato a giugno a Ginevra.

Da lì in poi, però, la situazione si è rapidamente deteriorata. Biden e Putin si parleranno un’altra volta il 7 dicembre, ma a quel punto la situazione era probabilmente già arrivata a un punto di non ritorno: la Russia aveva iniziato ad ammassare le truppe al confine con l’Ucraina, lo scambio di messaggi tra i due leader si era fatto più teso col passare dei giorni, fino all’ultimo vertice mai avvenuto tra i due. Joe Biden si era detto disponibile a incontrare di nuovo il presidente russo se questi non avesse invaso il Paese di Volodymyr Zelensky. Era il 21 febbraio, i carri armati russi stavano entrando nei territori autoproclamati indipendenti del Donbass: tre giorni dopo i razzi di Mosca colpivano Kiev e altre città ucraine dando così inizio all’invasione su larga scala del Paese.

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