Conosco la sofferenza del popolo ucraino, è la stessa che il mio Afghanistan conosce dopo quasi 45 anni di guerre e conflitti interni. Vedere quelle immagini dei bombardamenti, i volti delle madri e dei bambini costretti a scappare, è come rivivere quei momenti, provo un forte dolore”. Sofia (nome di fantasia, ndr) è una delle tante donne evacuate da Kabul lo scorso agosto, arrivate con il ponte aereo in Italia e salvata dopo il rientro al potere dei Talebani.

C’era anche lei, attivista della Fondazione Pangea onlus, a Roma, nel giorno in cui tante realtà, ong e associazioni hanno raccolto l’appello lanciato dalla Rete per la pace e il Disarmo per manifestare contro la guerra e l’invasione russa decisa da Putin, per chiedere lo stop immediato al conflitto e spingere affinché torni in campo la diplomazia. “Vogliamo far sentire la voce delle donne afghane. Non importa se la guerra è nel nostro Paese, in Siria o a Kiev. Noi siamo costruttrici di pace, rifiutiamo la guerra”, rivendica Sofia.

Accanto a lei, in piazza, ci sono Nida e Gula, anche loro attiviste di Pangea, fuggite dalla propria terra per salvarsi dalla vendetta dei Taliban. Tante invece sono ancora lì, costrette a nascondersi. Circa ottanta sono quelle protette nella ‘Safe House‘ di Kabul che la Fondazione Pangea stessa – presente in Afghanistan dal 2003 – cura e mette a disposizione di tante donne e bambini, così come di attivisti per i diritti umani. Primi ricercati dai Taliban, perseguitati per essersi ribellati o per aver lavorato affinché anni di progressi nel rispetto dello Stato di diritto non venissero cancellati per sempre. “Io mi sono riuscita a salvare, ma la mia testa e i miei pensieri sono sempre a Kabul, rivolti verso quelle donne che oggi vivono in una condizione drammatica. Recluse in casa, senza diritti elementari, come in una prigione“, spiega al Fattoquotidiano.it una delle attiviste.

E ripercorre quei giorni di agosto, quando, spiega, “si era ritrovata come in trappola”, nel tentativo disperato di trovare una via di fuga, poi per fortuna trovata: “Il giorno in cui i Talebani rientrarono a Kabul ero nella sede di Pangea. Stavamo bruciando, eravamo costretti a farlo, tutto il nostro archivio perché tutti quei nomi, quei dati, tutti quei libretti di microcredito erano troppo pericolosi per le donne e i bambini”, ricorda. Diciotto anni di lavoro, promesse, sogni realizzati. E che, con la presa del potere taliban, per tante, troppe donne, sembrano svaniti nel nulla: “Oggi le donne non possono andare al lavoro, non possono vestirsi liberamente o iscriversi all’Università, le bambine non possono studiare“, spiegano le attiviste.

Chi ha deciso però di restare, accanto alle donne afghane, è proprio Pangea, decisa a proteggerle: “Ricominceremo da capo, in modo clandestino, passo dopo passo, promessa dopo promessa. Non lasceremo sole le donne di Kabul”, rivendica Simona Lanzoni, vicepresidente. E spiega: “La guerra è direttamente collegata con la violenza sulle donne. In ogni scenario dove c’è una situazione di conflitto e dove proliferano le armi, registriamo come aumentino le violenze in famiglia e gli stupri”.
“Dopo aver aiutato tante famiglie a lasciare il Paese, siamo rimasti in Afghanistan perché la situazione oggi è terribile. Non soltanto il dramma della condizione femminile. Le persone muoiono di fame: stiamo facendo distribuzione alimentare in sette province del Paese, a famiglie estremamente vulnerabili, povere e in difficoltà”, racconta la vicepresidente di Pangea, ricordando come nel Paese sia ormai in atto una grave crisi umanitaria. Tutto mentre prosegue il tentativo di lavorare per nuovi corridoi umanitari, per mettere in salvo altre attiviste con le loro famiglie.

Al momento, però, per tante, troppe donne afghane, non ci sono piani di evacuazione dall’ Afghanistan all’orizzonte. E la loro vita è stata praticamente annullata con il rientro dei Taliban. “Le donne sono state completamente rimosse da qualsiasi ambito della vita. I Talebani dicevano di essere cambiati, ma giorno dopo giorno ci siamo rese conto che non è così. La loro mentalità è rimasta la stessa, sono cambiate soltanto, forse, le loro parole, la loro propaganda”. Nel tentativo di uscire dall’isolamento e chiedere il riconoscimento ufficiale internazionale. “Hanno cercato di mostrarsi per quello che non sono. Non si può accettare una normalizzazione di questo governo”, avverte Pangea.

Anche perché la repressione di chi prova a opporsi al regime talebano si fa sempre più feroce: “Cercano porta per porta chi aveva lavorato per i diritti, giornalisti, chi viene considerato un oppositore. Tante persone vivono ogni giorno nella paura “, racconta Gula. Anche per questo, oggi che si trova al sicuro in Italia, promette: “Non ci dimenticheremo di loro. Io sto per iscrivermi all’Università, voglio lavorare per dare un futuro a tante ragazze che oggi sono rimaste a Kabul, così come per chi si trova in tante altre zone di guerra del mondo”.

Il pensiero non può che tornare verso Kiev e verso le città ucraine bombardate da Putin, come verso tante altre donne in fuga: “Non riesco a trattenere le lacrime vedendo quanto sta accadendo, alle immagini dei rifugiati nei confini di Polonia e Moldavia. Quello che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, adesso si sta ripetendo”, spiega una delle ragazze.

“Facciamo un appello ai politici e ai leader mondiali: vi prego, fermate la guerra“, è così l’appello di Gula. Sofia lo ha rilanciato pure dal palco della manifestazione per la pace a Roma: “Le donne sono sempre ignorate nei processi di pace. Ma penso che non si potrà mai arrivare alla pace nel mondo senza le donne. Non date armi alle persone, date più potere alle donne e vedrete che la pace si raggiungerà facilmente”.

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