Antigone è stata ammessa come parte civile nel procedimento penale per le torture avvenute il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si va finalmente a processo.

Il 16 aprile di quell’anno, in pieno lockdown, Antigone aveva denunciato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria quanto aveva appreso da parenti di persone detenute in una serie di racconti perfettamente coerenti e combacianti, depositando quattro giorni dopo un esposto in Procura contro la polizia penitenziaria per tortura e percosse e contro i medici per omissione di referto, falso e favoreggiamento. Nulla si mosse fino al settembre successivo, quando si diffuse la notizia dell’esistenza di un video – reso pubblico nei mesi seguenti – che documentava le brutali violenze. Immagini salvate di nascosto da un magistrato di sorveglianza senza che i protagonisti – che tenteranno di falsificare quella che credevano essere la sola copia esistente – ne fossero a conoscenza.

Lo scorso settembre la procura di Santa Maria Capua Vetere ha depositato l’atto di chiusura delle indagini. Vi si racconta di un carcere trasformato in teatro di guerra, una guerra punitiva dichiarata unilateralmente da chi dovrebbe rappresentare le istituzioni. Le vittime sono 177, gli indagati 120, i capi di imputazione 85. Una persona è morta. Altro che mele marce.

C’è un prima e c’è un dopo, rispetto alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Il prima è l’indifferenza, la retorica insopportabile delle poche mele marce di una nazione che fino al 2017 non poteva incriminare per tortura i propri funzionari in assenza di una legge che la punisse in modo espresso, il senso di impunità e strafottenza verso la legalità ostentato dai poliziotti nelle conversazioni intercettate, il silenzio assordante dei tanti che quel giorno erano in istituto pur senza aver partecipato al pestaggio. Di tutti loro, come ovvia prassi omertosa di sistema, altro che mele marce, dimostrando con ciò stesso che l’uso della violenza in carcere non è un’eccezione.

Il dopo è la reazione pubblica indignata, l’inchiesta, la presa di posizione del governo, la visita della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del premier Mario Draghi a Santa Maria Capua Vetere, le loro parole inequivocabili, l’istituzione di una commissione ministeriale per l’innovazione penitenziaria la cui presidenza è stata affidata al prof. Marco Ruotolo, la consapevolezza che nelle carceri è necessaria una rivoluzione antropologica e normativa, una formazione condivisa del personale su una pena costituzionalmente orientata.

Il processo per tortura farà il proprio corso. Un vero e proprio maxi-processo, con centinaia di parti coinvolte. E ci saranno anche gli avvocati di Antigone. Nel frattempo l’attuale capo dell’Amministrazione Penitenziaria ha preannunciato le dimissioni, alla luce della pensione oramai vicina. Chi prederà il suo posto (perché non un direttore di carcere? Perché non un professore universitario? Non è mai accaduto prima. Perché dare per scontato che debba essere sempre e solo un magistrato?) dovrebbe ripartire da quel video.

Senza farsi condizionare dalle corporazioni, dovrebbe prendere con nettezza tutte le misure volte a bandire ogni forma di violenza dai luoghi di detenzione: videocamere che riprendano anche i luoghi più oscuri (le scale, le sezioni di isolamento), registri che certifichino tutte le operazioni di perquisizione, procedimenti disciplinari effettivi verso chi è coinvolto in attività illegali e violente. Tutto questo non è contro le forze dell’ordine. Tutto questo è a tutela dei poliziotti onesti. Ogni contrarietà dei sindacati di polizia penitenziaria sarebbe inammissibile e li porrebbe ai limiti della legalità interna e internazionale.

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