Un secondo sversamento di petrolio in Perù, dieci giorni dopo la catastrofe del 15 gennaio. Martedì 25, infatti, la marina peruviana ha comunicato una nuova fuoriuscita di greggio dalla raffineria di La Pampilla, una trentina di chilometri a nord della capitale Lima, sulla costa. Un’altra ferita per un Paese in emergenza ambientale, costretto a contare i danni del “peggior disastro ecologico degli ultimi tempi”. A detta delle autorità peruviane, si tratta di uno sversamento “relativamente piccolo” e sotto controllo, anche se non è ancora chiara la quantità di petrolio finita in mare.

Nel paese andino, la rabbia è diretta soprattutto contro la compagnia petrolifera spagnola Repsol, ritenuta da più parti non solo responsabile dell’incidente, ma anche di aver preso sotto gamba la portata dello stesso, tardando negligentemente nel dare l’allarme. Non solo: al di là delle mancanze nelle operazioni di contenimento del liquido nero, il capitano della petroliera Mare Doricum – l’italiano Giacomo Pisani – accusa apertamente la società spagnola di aver mentito, nascondendogli la vera entità del disastro e cercando di attribuirgli la responsabilità della fuoriuscita di 6mila barili. A sostegno di ciò, Pisani ha consegnato alle autorità peruviane alcuni documenti che sono stati rivelati dal quotidiano spagnolo El País. Dai quali emerge lo scontro tra il capitano e la raffineria di proprietà della Repsol, avvenuto dopo l’incidente nel distretto di Ventanilla.

Un quadro delicato, quello delle responsabilità – penali, civili e amministrative – , su cui la pressione dell’opinione pubblica sale di giorno in giorno. Il pm Ariel Tapia Gómez ha chiesto di disporre un divieto di espatrio per 18 mesi nei confronti dei vertici della compagnia Repsol. A partire dal direttore esecutivo Jaime FernándezCuesta, che rientra, insieme ad altri tre alti funzionari di Repsol, tra gli indagati per reati ambientali. I fascicoli dei due sversamenti dovrebbero essere uniti. La società Repsol, che secondo i media peruviani rischia anche una multa di 138 milioni di dollari, aveva inizialmente attribuito la fuoriuscita di petrolio allo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano sottomarino a Tonga. Una versione smentita dal capitano della Mare Doricum, oltre che dal ministro dell’Ambiente Rubén Ramírez (“Una scusa”), secondo cui il 15 gennaio non si era verificata alcuna anomalia in mare. Allo stesso modo, la compagnia spagnola sostiene di aver disposto tempestivamente tutte le misure necessarie per contenere il danno ambientale, che ha coinvolto 50 chilometri di costa, 21 spiagge tra Callao e Lima e due aree naturali protette.

La marea nera, che continua a spostarsi verso nord, sta mietendo vittime tra la flora e la fauna del Perù, ricco di biodiversità. Danni che potrebbero perdurare per anni, aggravati dai ritardi nell’opera di contenimento del petrolio ma anche dalla qualità del lavoro di bonifica. Alcune ong, come Oceana Perú, lamentano interventi superficiali nelle operazioni, che non impediscono il riemergere del materiale contaminato all’alzarsi della marea. Senza contare gli allarmi per la tutela della salute del personale assunto da Repsol per pulire le spiagge contaminate, così come quella dei volontari che si stanno dando da fare senza pensarci due volte. Per non parlare dei danni economici: almeno 1500 pescatori hanno perso il lavoro.

Articolo Precedente

Pfas in Veneto, la denuncia dell’Onu: violati i diritti alla salute e all’informazione

next
Articolo Successivo

Terra dei fuochi, i 200 milioni per la riqualifica verranno sperperati. Mentre i registri tumori restano fermi

next