“Tornare in Italia? Un giorno, forse quando andrò in pensione”. Stefano Fasciani ha 39 anni ed è un ingegnere elettronico di origini romane. Nel 2007 ha lasciato il suo lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato nella capitale per andare all’estero: direzione Singapore. “Nessuno mi ha costretto ad andar via. Volevo solo fare esperienza e crescere dal punto di vista professionale e umano”. Laurea triennale e specialistica a Tor Vergata in ingegneria elettronica, Stefano per 4 anni ha lavorato come ingegnere in un’azienda a Roma. In tutto 15 anni fra Singapore (alla National University of Singapore e alla Nanyang Technological University) ed Emirati Arabi. Oggi copre il ruolo di associate professor al dipartimento di musicologia dell’università di Oslo, dove si occupa di Music Technology. In Norvegia, racconta Stefano, si dà molta più importanza alla vita privata e alla famiglia rispetto al lavoro. “Alcune differenze le fa la legge, ma la stragrande differenza la fanno i tuoi colleghi, il loro background culturale e la loro attitudine”, racconta al Fatto.it.

A livello di legislazione e tassazione, Norvegia e Italia, per Stefano, sono molto simili. A Singapore, invece, si pagano meno tasse, “ma lo Stato non ti dà niente, specie se sei straniero (la sanità è garantita da un’assicurazione privata che ti paga il datore di lavoro, la pensione non esiste, se vuoi mandare i figli a scuola devi pagare)”. Negli Emirati Arabi Uniti si “guadagna bene, il tuo percorso viene riconosciuto e valorizzato specie se vieni da università di livello”. La tassazione sul reddito “è zero”. Però “non hai alcun servizio pubblico – continua il professore –. Paghi anche per andare a fare una denuncia dalla polizia. Mandare tuo figlio a scuola costa più che pagare le tasse”. Inoltre, in questi paesi “non hai nulla di garantito, non esiste welfare: se perdi il lavoro non c’è sussidio, te ne vai”.

Per Stefano la formazione italiana è “di ottimo livello”, i corsi e gli esami sono “più difficili”. “Fondamentalmente il 18 in Italia è un voto che gli studenti cercano di evitare. Eppure rappresenta il 60% della soglia minima per superare l’esame. Qui in Norvegia in teoria si passa col 41%, altrove con il 50%. Questo ti dice tanto sul livello dell’Italia”, aggiunge. Quando Stefano studiava ingegneria in Italia “a livello di laboratori, infrastrutture per fare ricerca – invece – non c’erano tante risorse”, ricorda. Causa pandemia, in Norvegia tra marzo e aprile 2020 “hanno chiuso l’università in maniera precauzionale, nonostante pochissime infezioni”. L’insegnamento è stato “stravolto”. La situazione di emergenza ha generato “una quantità di lavoro addizionale, togliendo tempo alla ricerca”, spiega. Come coordinatore di un programma master cross-campus in Music Communication and Technology – aggiunge Stefano – “facevamo già molto online con i nostri studenti e colleghi divisi tra Oslo e Trondheim. È stato semplice per noi migrare al 100% sulle piattaforme in rete”.

Stefano non condivide “assolutamente la retorica della fuga dei cervelli”. Nell’ambito di ricerca, spiega, i cervellidevono circolare: è giusto che chi studia abbia la possibilità e l’opportunità di andare, circolare. Da Roma a Zurigo, fino a Sidney. In ambito accademico la diversità, le esperienze all’estero ti aprono la mente”. Quello che manca sono “i ricercatori stranieri che arrivano, perché è risaputo che in Italia si spende un po’ meno in ricerca”. Spesso la lingua rappresenta “un problema”, anche se molti atenei oggi stanno iniziando ad avere lauree specialistiche in inglese per “attirare studenti stranieri”. Così come il sistema dei concorsi: “Il problema dell’università italiana è il metodo di assunzione. In tutti gli altri paesi dove ho lavorato non esistono i concorsi. Si sceglie la figura che più serve al dipartimento. Se ho una posizione da dottorato scrivo un annuncio di lavoro, specifico il profilo e seleziono con una commissione esterna il candidato. Il concorso ti porta ad assumere il più bravo a livello assoluto ma non quello che ti serve in quel momento”. Un consiglio ai giovani? “All’estero affronterai problematiche, persone la cui cultura e modo di pensare è diverso dal tuo, diventi aperto e tollerante con gli altri – risponde il professore romano –. Uscire quindi dalla bolla e osare, rischiare, senza paura”. Stando fuori “ti rendi conto di quante cose positive ci sono in Italia. Chi rimane spesso e volentieri finisce per criticare tutto”, sorride Stefano. “Se non fossi partito – conclude – la mia vita sarebbe stata molto più noiosa e priva di soddisfazioni”.

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“Il futuro non può aspettare”, i cervelli in fuga nel libro di Michela Grasso: “Nelle mie valigie nessun capriccio ma anni di riflessioni”

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