Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la Conferenza generale di pace, con la partecipazione di trentadue Paesi e l’esclusione dei vinti, che dovettero firmare quanto sancito dai vincitori della Prima Guerra Mondiale. Venti giorni prima il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson aveva indicato al Congresso i Quattordici punti su cui si sarebbe dovuta costruire la pace internazionale. Tra questi ne emergevano alcuni come il principio di autodeterminazione, lo smembramento degli imperi e la costruzione di intese internazionali, il mantenimento della pace e una maggior libertà di movimento e commercio.

È importante notare che, al di là di ogni giudizio sui punti specifici, anche oltreoceano il punto dirimente restava quello dell’interesse particolare. Infatti, gli Stati Uniti, economicamente ben più floridi dei Paesi europei usciti dal conflitto e legati a diverse strutture sociali e politiche, avrebbero così trovato il modo più semplice e “spontaneo”, di affermare la propria egemonia a livello globale. In più, l’universalismo che emergeva dalle proposte wilsoniane intendeva creare un modello di riferimento, anche per contrastare un altro nuovo modello che stava facendo progressivamente breccia nei Paesi occidentali, quello socialista. Al “fare come in Russia” si voleva contrappore un’ alternativa. Tuttavia, le retoriche adoperate nascondevano realtà più complesse a partire dal principio di autodeterminazione, per cui, in breve, ogni popolazione sottomessa a una forza straniera avrebbe dovuto scegliere la propria identità nazionale e le proprie forme di governo – dando per scontato la base prevalentemente etnica su cui costruire tali operazioni. Così, si pensava, sarebbe evaporato ogni motivo di tensione internazionale e si sarebbe potuta raggiungere una “pace senza vincitori”.

Tale formulazione ebbe eredità ambigue e gravate dal peso di una forte strumentalizzazione politica e metastorica, fino ad alimentare espressioni di ultranazionalismo. Nondimeno l’idea hitleriana della nascita di una Grande Germania che riunisse ogni popolo tedesco. Fu accolta con grande entusiasmo anche la costruzione di una Società delle nazioni che promuovesse: cooperazione tra le nazioni; garanzia della pace e della sicurezza; non ricorso alla guerra; relazioni internazionali fondate su “giustizia” e “onore”. Questa proposta però si rivelò inefficace e fortemente retorica. Il patto costitutivo manifestatosi in forma astratta e moraleggiante non era di fatto legato alla costruzione di una struttura concreta che fornisse all’organizzazione strumenti decisionali autonomi.

La limitazione al ricorso alle armi rimase perlopiù un auspicio e la Società assunse la fisionomia di una sorta di Parlamento mondiale in cui, de facto, le potenze più forti esercitavano la loro egemonia senza che ci fossero tutele per gli altri Paesi membri. Ciò risultò particolarmente evidente quando il Congresso statunitense non approvò la partecipazione americana all’organismo, in contrasto con gli orientamenti presidenziali. In questo modo si sfilò dal gioco l’unico effettivo attore d’influenza e di mediazione all’interno di uno scenario europeo (e mondiale) dove i paesi rimanevano attraversati da tensioni e ferite. Di fatto, nel periodo tra le due guerre, la Società delle nazioni non riuscì in alcuna maniera né a fronteggiare i conflitti dell’epoca (come quello cino-giapponese del 1931, l’aggressione all’Etiopia da parte dell’Italia nel 1935, la guerra civile di Spagna del 1936-39), né a scongiurare la seconda Guerra Mondiale.

Allo stesso modo, i toni apparentemente concilianti che anticiparono le trattative di pace della Prima Guerra Mondiale non si tradussero in alcun appianamento reale delle tensioni. Infatti, molte delle potenze europee in gioco, specie dopo aver vinto un conflitto armato, continuavano a ritenere prioritario l’allargamento delle proprie sfere di dominio piuttosto che il raggiungimento di una “pace perpetua”. Stavano cambiando tuttavia le modalità e le sfere di esercizio di questi poteri.

A partire dalla Conferenza generale del 18 gennaio tutto il potere decisionale venne diviso tra quattro potenze: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia. Gli interessi italiani erano però ancora legati a quelli dell’Austria e il potere di intervento italiano nelle trattative venne velocemente marginalizzato. Inoltre, l’Italia era considerata sostanzialmente una potenza di secondo rango e come tale trattata. Il Consiglio delle potenze del quadripartito si trasformò così in tripartito, lasciando Roma fuori da molti processi decisionali e da diverse spartizioni territoriali. Su tali premesse sarebbe successivamente fiorita la retorica della vittoria italiana nella prima guerra mondiale come “vittoria mutilata”. Come se non bastasse – e in totale contraddizione con il punto 3 dei Quattordici punti del presidente Woodrow Wilson che chiedeva la fine della diplomazia segreta – i lavori della conferenza si svolgevano nel più stretto riserbo.

Dalla Conferenza uscirono cinque trattati di pace, non concordati ma appunto, imposti: Versailles con la Germania, Saint-Germain con l’Austria, Trianon con l’Ungheria, Neuilly con la Bulgaria, Sèvres con la Turchia. Si trattò quindi, come spesso si dice, di una pace punitiva, da cui non emersero vincitori ma solo vinti. L’Austria perse moltissimi territori e divenne un gracile corpo, con una grande testa, Vienna. Lo stesso per l’Ungheria che fu anche condannata a pagare ingenti riparazioni. Le soluzioni più complesse furono però quelle che riguardarono Germania e Turchia. Quando ci si riunì a Parigi, la Francia manifestò subito la propria volontà di annientare la Germania.

La Germania subì infatti la temuta vendetta della Francia, nazione che più di altre aveva patito gli effetti del conflitto in termini di distruzioni e perdite di vita umane. Le intenzioni furono evidenti fin dalla scelta del luogo per la firma del trattato di pace: la galleria degli Specchi di Versailles, già sede nel 1871 della proclamazione dell’Impero tedesco dopo la sconfitta subita dai francesi nella guerra franco-prussiana. I contenuti del trattato furono frutto di un gioco di equilibri anche con le altre forze vincitrici. La Francia aveva come scopo il totale annientamento tedesco, così da rendere impossibili altre invasioni del proprio territorio. Al contempo si pensava che la Germania dovesse pagare altissimi risarcimenti e interessi per ripagare la ricostruzione del loro Paese.

Nel frattempo i capitalisti francesi intendevano espandere la propria influenza in Africa, Asia e nei territori dell’ex impero turco. Intendevano , infine, mettere le mani sulle risorse minerarie della zona renana tedesca. Gli inglesi però non auspicavano il totale annientamento tedesco. Infatti, questi avevano già ottenuto quanto desideravano dall’armistizio (la distruzione della flotta tedesca, il controllo della maggior parte delle colonie, il controllo della ferrovia di Bagdad, l’eliminazione della Germania come concorrente sul mercato internazionale) e non volevano perdere un importante controparte per i loro commerci. Pure gli Stati Uniti, che avevano la maggioranza dei propri interessi di influenza nell’America centro-meridionale, non avevano come priorità il totale annientamento tedesco. Dunque, di fronte a questa ipotesi di demolizione economica e militare, si ponevano gli interessi inglesi e la mediazioni statunitense.

Ciononostante, a seguito del Trattato di Versailles, la Germania si trovò a dover ridurre le proprie forze armate e la flotta militare; smilitarizzare la zona del Reno; restituire l’Alsazia Lorena alla Francia e restituire alla Polonia parte dell’Alta Slesia, della Posnania e della Pomerania oltre a cedere tutte le colonie. Inoltre, si aggiunsero alle perdite territoriali (in molti casi economicamente e geopoliticamente strategiche), processi di smantellamento dell’apparato produttivo: le riparazioni imposte prevedevano la consegna di gran parte delle flotte e delle navi di futura costruzione; la fornitura di carbone per 10 anni; la cessione alla Francia e al Belgio di una gran fornitura di bestiame; la garanzia di alcune agevolazioni doganali e il pagamento di 132 miliardi in marchi d’oro.

Si arrivò a una condanna così pesante soprattutto sulla base di un’alleanza tra gli inglesi e i francesi. La Gran Bretagna ebbe infatti bisogno di raggiungere un accordo con la Francia per definire la propria sfera di influenza in Medioriente. Gli inglesi intendevano mantenere il controllo più ampio possibile sui territori che avevano occupato tra 1917 e 1918: Mesopotamia, Iraq, Palestina e le zone più ricche dell’Arabia. L’idea era quella di mantenere così una linea diretta tra queste nuove conquiste e i propri possedimenti in Africa orientale e in India, così da disporre di immense risorse (si pensi solo al petrolio). La Francia però era una delle potenze europee con maggiori investimenti in Turchia (63% circa) e, quindi, non ne desiderava l’annichilimento; oltre a volere il controllo sulla Siria. Tuttavia, proprio in virtù dell’appoggio dato dagli inglesi ai francesi contro i tedeschi; i francesi dovettero cedere alla preponderanza degli interessi inglesi: il trattato di pace con la Turchia assegnò alla Gran Bretagna il controllo dell’Iraq e della Palestina sotto forma di mandato, una forma più informale di controllo su Transgiordania, Arabia e Yemen e il dominio su tutti gli stretti; mentre alla Francia fu assegnata la Siria. L’impero turco ne risultò completamente distrutto e il risentimento fu violento, anticipando la forza dei futuri conflitti.

In sostanza furono realizzati la maggior parte degli obiettivi con cui le maggiori potenze vincitrici (eccezion fatta per l’Italia) si erano presentate ai tavoli di pace e furono inflitte pesanti umiliazioni e sanzioni materiali enormi ai paesi sconfitti. Se le ragioni di risentimento di questi ultimi possono risultare in qualche modo evidenti, nondimeno ci furono diffuse amarezze pure tra i vincitori: i francesi non gradirono le forme della mediazione americana, mentre gli inglesi si sentirono messi in secondo piano dagli stessi francesi. Al contempo gli americani ebbero sempre meno potere di intervento dopo il voto del Congresso contro l’adesione alla Società delle Nazioni. Ciò che ne risultò, più che una serie di trattati di pace, fu un complesso di precari armistizi, che non seppero reggere al peso delle trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali che stavano investendo l’intera realtà europea. Una “pace cartaginese” che tracciò le premesse di una ineludibile fragilità geopolitica e gettò i semi per i conflitti successivi.

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