Non affossare il disegno di legge sul suicidio assistito. L’appello arriva da La Civiltà Cattolica, il quindicinale dei gesuiti le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di Stato vaticana. “Per la situazione del Paese e il richiamo della Corte costituzionale al Parlamento – si legge in un articolo di padre Carlo Casalone – ci sembra importante che si arrivi a produrre una legge. La latitanza del legislatore o il naufragio della proposta di legge assesterebbero un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni, in un momento già critico. Pur nella concomitanza di valori difficili da conciliare, ci pare che non sia auspicabile sfuggire al peso della decisione affossando la legge. Diverse forze politiche si muovono in questo senso, benché con opposte motivazioni: chi per sgombrare la via verso il referendum e agevolare la vittoria del ‘sì’, chi per rinviare sine die la discussione su una tematica spinosa. Nell’attuale situazione culturale e sociale, sembra a chi scrive da non escludersi che il sostegno a questa proposta di legge non contrasti con un responsabile perseguimento del bene comune possibile”.

Una posizione finora inedita all’interno della Chiesa cattolica che vuole, però, indubbiamente aprire il dibattito, più dentro che fuori le istituzioni ecclesiali, e suscitare delle reazioni in senso contrario a quelle finora registrate dalle gerarchie. Del resto, è questo da sempre lo stile delle riflessioni proposte da La Civiltà Cattolica su molti fronti, in particolare sui temi inerenti la bioetica e la vita politica del Paese. L’articolo di padre Casalone sul suicidio assistito si pone in questa direzione e merita di non essere per nulla sottovalutato. “Non c’è dubbio – scrive il gesuita – che la legge in discussione, pur non trattando di eutanasia, diverga dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti. La valutazione di una legge dello Stato esige di considerare un insieme complesso di elementi in ordine al bene comune, come ricorda Papa Francesco: “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni, anche normative, il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte, lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società’”.

Per il gesuita “la domanda che si pone è, in estrema sintesi, se di questa proposta di legge occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. Tale tolleranza sarebbe motivata dalla funzione di argine di fronte a un eventuale danno più grave. Il principio tradizionale cui si potrebbe ricorrere è quello delle ‘leggi imperfette’, impiegato dal magistero anche a proposito dell’aborto procurato. Il criterio non sarebbe qui spendibile in modo automatico, perché siamo di fronte più a rischi che a certezze: non si tratta qui di migliorare una legge più permissiva già vigente. Eppure, in questo contesto, l’omissione di un intervento rischia fortemente di facilitare un esito più negativo. Per chi si trova in Parlamento, poi, occorre tener conto che, per un verso, sostenere questa legge corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo. Per altro verso, le condizioni culturali a livello internazionale spingono con forza nella direzione di scenari eticamente più problematici da presidiare con sapiente tenacia”.

Padre Casalone sottolinea, inoltre, che “sembra paradossale che nel tempo della pandemia, quando l’impegno collettivo è tutto proteso a tutelare la salute dei cittadini, si discuta di rendere lecito l’aiuto a togliersi la vita. Il paradosso mette però in evidenza una dinamica che attanaglia la medicina. Se all’impresa biomedica si assegna il compito di dominare i processi biologici e rispondere al desiderio di salute di ciascuno, allora sembra plausibile chiederle, quando fallisce l’obiettivo e la sofferenza viene ritenuta intollerabile, di abbreviare la vita: è l’ultimo passo per esercitare il controllo. Il punto sarebbe invece di interrogarsi sull’impostazione dell’intera impresa: rivedere gli scopi perseguiti dalla medicina e riarticolare, per la tutela della salute e la terapia del dolore, il rapporto fra trattamento delle malattie e prevenzione, tra ospedale e territorio, tra settori sanitario e sociale. La pandemia ha acuito questi interrogativi. L’onda del contagio globale ha, da una parte, smentito il mito del controllo e, dall’altra, evidenziato l’importanza di un atteggiamento di cura che non si limiti ai soli soggetti umani”.

Twitter: @FrancescoGrana

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