Sempre più giù nei sondaggi. Con una pandemia dilagante. In difficoltà sulle riforme più importanti. Sotto pressione per l’inflazione che mette a rischio la ripresa economica. Joe Biden inizia il secondo anno di mandato con molti problemi e poche certezze. Se si pensa che il 2022 si concluderà con le elezioni di midterm, da cui dipende la sua sopravvivenza politica, si capisce quanto le sfide dei prossimi mesi siano essenziali per il presidente americano.

Alcune cose importanti, in questo primo anno di governo, sono state fatte. Miliardi sono stati stanziati per sanità e rilancio economico dopo i mesi più duri della pandemia. La disoccupazione è scesa al 4,2 per cento e una legge sulle infrastrutture da mille miliardi è passata al Congresso (con il voto, cosa rarissima, di un manipolo di repubblicani, che sinora hanno condotto un’opposizione durissima, spesso faziosa, sempre efficace).

Nel complesso, Biden non è però riuscito a trasmettere un’immagine di forza e di controllo. È apparso stanco più che saggio. Indeciso più che pragmatico. Fagocitato dal suo stesso, rissoso partito. Ad aggravare le difficoltà del presidente conta sicuramente il momento particolare che gli Stati Uniti e il mondo stanno vivendo. Non c’è forse nessuna riforma, nessun investimento, che possa placare un’ansia ormai generale. Biden non riesce a trasmettere un’idea di futuro perché il futuro resta vago e non c’è strategia politica che possa davvero governare il presente.

Ciò non toglie che Biden sia, per l’appunto, il presidente. A lui toccano la responsabilità del governo, l’onere delle scelte, dunque la possibilità di un giudizio negativo sul suo operato. Ecco quindi un riepilogo delle principali sfide che il presidente dovrà affrontare nel 2022.

LA PANDEMIA – Non ci sono molti dubbi. Le fortune politiche di Joe Biden per il 2022 sono indissolubilmente legate alla pandemia. Bisogna però distinguere tra un elemento imprevedibile e un altro su cui l’amministrazione può agire. L’elemento imprevedibile è l’evoluzione del virus. Omicron si rivelerà una variante davvero letale, tale da mettere in seria difficoltà il sistema sanitario americano? Oppure, come dicono alcuni, la maggior contagiosità non corrisponde ad un aumento della pericolosità del virus? Dopo Omicron, si svilupperanno altre varianti altrettanto “cattive”? E saranno necessarie nuove chiusure?

Sono domande cui nessuno al momento – non nella comunità scientifica, tanto meno in quella politica – può dare risposte attendibili. Da questo punto di vista, dunque, il futuro di Biden appare segnato dalla generale incertezza. C’è però qualcosa che il presidente può fare: intensificare gli sforzi di copertura vaccinale. Sinora non ci sono stati gli esiti sperati. Poco più del 70 per cento degli americani ha ricevuto almeno una dose; circa il 60 per cento è completamente vaccinata. Si tratta di numeri al di sotto degli obiettivi ritenuti necessari per bloccare davvero la pandemia (due dosi ad almeno l’80 per cento della popolazione).

Di qui dunque i continui appelli di Biden – “vaccinarsi è un atto patriottico”, ha detto nei giorni scorsi – cui si aggiungono altre misure come la distribuzione entro la fine di gennaio di mezzo milione di tamponi rapidi e l’utilizzo di circa mille soldati negli ospedali affollati di pazienti Covid. Biden sa del resto una cosa. Non c’è per lui possibilità di manovra politica fino a quando il virus non verrà posto sotto controllo
e l’economia liberata dalla minaccia di lockdown, restrizioni, licenziamenti.

RIFORME REALIZZATE. RIFORME SOGNATE – Biden è arrivato alla Casa Bianca sull’onda di un forte slancio riformistico. Gran parte di quello slancio si è però esaurito nel giro di pochi mesi. Tra le cose fatte c’è l’American Rescue Plan Act of 2021, un investimento di oltre mille miliardi di dollari in assistenza diretta, aumento dei minimi salariali, allargamento dell’assistenza sanitaria. Altra riforma importante passata in questi mesi è quella relativa alle infrastrutture: altri mille miliardi per aggiornare le reti di comunicazione e favorire la transizione tecnologica e ambientale. Ancora incerto è invece il futuro del Build Back Better, il piano cui Biden e i progressisti hanno affidato il compito di riformare il disastrato welfare americano. La legge, che è passata alla Camera, è ferma al Senato, dopo che il democratico centrista Joe Manchin ha detto che non intende votarla perché troppo costosa, tale da aumentare il già abissale deficit Usa.

Nel 2022 il presidente riparte dunque da qui. Da un lato, deve rivendicare quanto fatto sinora. Nei giorni successivi al passaggio della legge sulle infrastrutture, Biden ha viaggiato in New Hampshire, Michigan, Minnesota, Missouri. Probabile che questo sforzo di “vendere” la riforma agli elettori prosegua anche nel 2022, e che anzi si intensifichi con l’approssimarsi delle elezioni di midterm. “Il presidente, l’amministrazione, i democratici devono essere certi che gli americani capiscano l’impatto di quanto fatto sulle loro vite”, ha detto Jim Margolis, consulente di Barack Obama per le campagne elettorali del 2008 e 2012. D’altra parte, resta l’incognita del Build Back Better. Biden non può permettere che il pezzo forse più importante della sua agenda resti irrealizzato. Probabile che nelle prime settimane del 2022 proseguano le
pressioni affinché Manchin voti almeno una versione più ridotta del piano. Ridurre ulteriormente le ambizioni del Build Back Better, già ridimensionato nelle scorse settimane, porrebbe però Biden in aperto contrasto col mondo progressista, dando l’impressione di un presidente debole, ostaggio dei contrasti interni al suo partito.

DELUSI. RASSEGNATI. ARRABBIATI – Come detto, l’elezione di Biden ha suscitato molte speranze. Il senatore del Delaware non è, ovviamente, Barack Obama; la sua campagna 2020 non ha espresso le attese, quasi millenaristiche, dello “Yes We Can” del primo presidente afro-americano. Biden ha comunque goduto di una situazione particolare e in fondo vantaggiosa. L’America, esausta dopo i quattro anni di Donald Trump, ha visto in questo politico tranquillo, stagionato, da sempre gregario, una possibile alternativa alla conflittualità permanente. Le varie anime del partito democratico, da quelle più centriste alle progressiste e radicali, si sono riunite attorno a Biden. Lo stesso hanno fatto gli afro-americani, preoccupati per la ripresa di un aggressivo suprematismo bianco durante gli anni di Trump.

A poco più di un anno di distanza dal voto del novembre 2020, il panorama politico è però completamente diverso. Gruppi e movimenti afro-americani sono delusi per l’incapacità di questa amministrazione di far passare riforme a lungo attese: in particolare, quella sul diritto di voto e il George Floyd Justice in Policing Act, sulla limitazione dei poteri di polizia. Apertamente critici sono i progressisti che, a parte qualche isolata concessione come il rafforzamento dei diritti sindacali e l’aumento dei minimi salariali, non hanno ottenuto nulla di quello che chiedevano: sanità pubblica, congedi parentali, cancellazione del debito studentesco, legge sul controllo delle armi. Nel 2022 Biden dovrà gestire questo diffuso malcontento, che rischia di trasformare le elezioni di midterm in una pesante débacle per i democratici.

A parziale giustificazione di Biden c’è un dato. I repubblicani hanno fatto nei mesi scorsi ampiamente ricorso al filibuster, l’ostruzionismo al Senato che richiede una maggioranza di 60 voti per l’approvazione di quasi tutte le leggi. Biden quei 60 voti non ce li ha. Anzi, come dimostra il caso di Joe Manchin, fatica a controllare tutti i 50 senatori democratici. Un’alternativa ci sarebbe. Riformare le regole dell’ostruzionismo; renderlo di più difficile esecuzione, quindi più raro. È una strada che Biden ha sinora rifiutato di intraprendere: il presidente ha trascorso gran parte della propria vita politica in Senato e ne ha sempre difeso prerogative e diritti. Anche a lui, appare però molto chiara una cosa. Senza porre qualche limite all’ostruzionismo, nessuna riforma verrà con ogni probabilità approvata e i democratici sono destinati a sicura sconfitta a novembre.

DIFENDERE IL VOTO – I fatti del 6 gennaio, l’attacco al Congresso, mostrano quanto a rischio sia il diritto di voto negli Stati Uniti. Non si tratta solo di atti violenti. Le continue accuse di brogli da parte di Donald Trump hanno condotto i repubblicani di diversi Stati a implementare misure che limitano radicalmente la partecipazione democratica. “Nella mia vita, non ho mai visto un tale, ossessivo attacco al voto”, ha detto Biden lo scorso 17 dicembre in South Carolina. Negli Stati a guida repubblicana sono passati limiti al voto per posta, sono stati ridotti i giorni di voto anticipato, ridisegnati i collegi elettorali, espulse migliaia di persone dalle liste elettorali, introdotte regole più restrittive per i documenti di identità ai seggi.

In molti Stati chiave, dalla Florida all’Arizona alla Pennsylvania, Donald Trump presenta poi propri uomini per le cariche di vice-governatore, segretario di stato, responsabile dei board elettorali. La mossa non è casuale. Attraverso quelle cariche e funzioni, l’ex presidente spera di controllare meccanismi ed esito del voto. È una strategia che imporrebbe una reazione decisa da parte dei democratici; che però, su questa come su altre questioni, si dividono. Un progetto di legge intitolato a John Lewis, il deputato della Georgia e figura storica del movimento per i diritti civili, è stato affossato dai repubblicani. Avrebbe riattivato alcune norme del Voting Rights Act del 1965 e riportato sotto il controllo del Dipartimento alla Giustizia il voto in Stati con un’antica tradizione di esclusione dei neri. Esiste un altro Freedom to Vote Bill, anch’esso fermo al Congresso, e l’onnipresente senatore Manchin, il democratico spina nel fianco dei democratici, ha preparato un suo progetto di legge, For the People Act, che impone standard nazionali per voto anticipato e per posta.

I repubblicani hanno detto no a tutto. Le elezioni più recenti mostrano del resto che, se aumenta l’affluenza al voto, aumentano le possibilità di vittoria democratica. In un dibattito organizzato da CNN a Baltimore il 21 ottobre, Biden ha detto di essere disponibile a cambiare le regole dell’ostruzionismo “per leggi elettorali e qualcosa d’altro”. Una riforma per tutelare il diritto di voto potrebbe dunque passare a maggioranza semplice, aggirando il blocco dei repubblicani. Non c’è però molto tempo. Ritardi, esitazioni varie potrebbero condurre i democratici alla catastrofe nel midterm 2022 e alle presidenziali 2024.

AMERICA IS BACK? – Entrando alla Casa Bianca, Biden aveva cercato di rassicurare gli alleati, confusi e irritati dopo i quattro anni di presidenza Trump. “America is back”, l’America è tornata, aveva trionfalmente annunciato Biden. In un mondo sempre più complesso e multilaterale, la frase si è rivelata per quello che è: poco più di uno slogan. È certamente vero che i toni di Biden verso alleati vecchi e nuovi sono più caldi e inclusivi rispetto a quelli del suo predecessore Ma è altrettanto vero che gli Stati Uniti hanno sempre più difficoltà a imporre la loro guida al mondo: l’assenza di una strategia globale sulla questione climatica ne è la prova.

D’altra parte, come dimostra la crisi dei sottomarini con la Francia, l’amministrazione Usa non ha problemi a coltivare i propri interessi, quando deve e può. Nel 2022, in campo internazionale, Biden si troverà di fronte tre sfide. Due nel breve-medio periodo; la terza di respiro più ampio. Anzitutto, Biden deve scongiurare l’eventualità di un’invasione russa dell’Ucraina. La Casa Bianca ha scelto sinora, nei confronti di Vladimir Putin, una duplice strategia. Da un lato, l’imposizione di sanzioni; dall’altro, l’apertura al dialogo, riconoscendo al leader russo quel ruolo di interlocutore privilegiato che il Cremlino rivendica. Detto questo, è chiaro che l’invasione russa deve essere scongiurata. Non fosse così, gli Stati Uniti si troverebbero di fronte a un’alternativa non facile: intervenire, rischiando di allargare il conflitto; non intervenire, rafforzando il regime di Putin e mostrando al mondo la propria debolezza.

La seconda questione di breve-medio periodo riguarda il nucleare iraniano. Una delle prime mosse di Biden è stata quella di ripristinare l’accordo sul nucleare che Obama aveva firmato nel 2015 e da cui Trump si era ritirato nel 2018. I negoziati sono ripresi a Vienna, ma è chiaro che il loro fallimento, e l’ascesa definitiva dell’Iran a potenza nucleare, sarebbero un colpo durissimo alla credibilità americana nel mondo.

Russia e Iran diventano però questioni secondarie se si guarda all’altra sfida, epocale, che questa amministrazione deve affrontare: il confronto/scontro con la Cina. Biden ha mantenuto con Pechino l’approccio più aggressivo inaugurato da Trump. La cosa non ha funzionato. La concorrenza commerciale e geopolitica della Cina nei confronti degli Stati Uniti si allarga. Nonostante proteste e avvertimenti da parte di Washington, Pechino ha poi praticamente ridotto al lumicino l’autonomia di Hong Kong. Il discorso si fa ancora più complicato nel caso di Taiwan. Xi Jinping ha spiegato in modo molto chiaro di ritenere Taiwan una questione interna. Ma gli Stati Uniti potrebbero accettare un’invasione cinese di Taiwan, dopo aver detto di volerne tutelare la sicurezza? Difficile. E dunque, cosa accadrebbe in caso di conflitto militare tra Cina e Taiwan? Ci sarebbe l’intervento americano, con il rischio di una guerra disastrosa tra le due massime potenze mondiali?

Per ora, si tratta solo di scenari. Ma se Biden sperava di trovare negli affari internazionali sollievo ai tanti guai nazionali, può ricredersi. L’estero, per lui, è un campo minato, esattamente come l’interno. Proprio con un evento internazionale è del resto iniziata la discesa nei sondaggi del presidente. “Non sarà un’altra
Saigon”, disse un membro dell’amministrazione, riferendosi al ritiro americano da Kabul. In realtà è stata “un’altra Saigon” e la sfida per Biden, nel 2022, sarà soprattutto una: ricostruire quel senso di autorevolezza, di guida della nazione, che il 2021 gli ha in parte sottratto.

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