Il bambino se ne sta appoggiato contro il muretto che circonda la sua casa a calle Lascano. Ha una faccia timida che sbuca da sotto un casco di capelli neri e un’espressione di meraviglia tatuata sulle labbra. Davanti a lui c’è un giornalista. Si chiama Eduardo Carpio e gli sta spingendo il microfono fin sotto il naso. “Tu giochi come numero 9 per l’Argentinos Juniors. Pensi di poter arrivare al livello di Diego?”, gli domanda l’uomo. Il ragazzino ha appena nove anni. E già si è trovato a dover fare economia sui propri sogni. “No”, risponde con voce sottile. “Non ci ho mai pensato. Perché mio fratello è un marziano, non si può discutere, non è di questo mondo. Diego è un fenomeno. Anche come fratello è un fenomeno. È il mio miglior amico, il mio miglior fratello. Ci dà tutto”.

Il bambino non lo sa ancora, ma in quel pomeriggio del 1979 ha pronunciato una maledizione. La sua. Qualcuno lo chiamerà El Turco. Altri preferiranno il nomignolo Huguito. Ma per tutti sarà sempre Hugo, il fratello di Diego Armando Maradona. Minore per età. E soprattutto per talento. Spesso i cognomi importanti diventano carta moschicida per gli ultimogeniti. Passano tutta la vita a sognare di liberarsene. Impiegano tutta la propria esistenza a dimostrare di esserne all’altezza. Da quel giorno anche Hugo è stato imprigionato in un ruolo. Perché con quelle parole così ingenue ha elevato a sistema la sua subalternità a Diego. E mentre il fratello scriveva la Storia, lui veniva definito soltanto per sottrazione. Era la versione umana del Dio del calcio, il lingotto di ferro costretto a stare accanto a quello d’oro. Giorno dopo giorno Hugo è diventato il J. Alfred Prufrock di TS Eliot, l’uomo che in attesa di trovare il coraggio di disturbare l’universo pronuncia la frase: “No! Io non sono il Principe Amleto, né ero destinato a esserlo; Io sono un cortigiano, sono uno utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due”.

Il suo pallone inizia a rimbalzare nello stesso cortile di Diego. Ma prende una parabola molto diversa. Il primo gol fra i grandi lo segna nel 1986. A 16 anni. Il tecnico dell’Argentino Juniors Roberto Saporiti lo butta dentro durante una partita contro il Platense. È la sua seconda presenza. E Hugo va subito in gol. “È un giocatore con una grande personalità dentro il campo da gioco”, giura l’allenatore. Sembra un prodigio. Il talento di Diego travasato nei piedi del fratello. Il problema è che i miracoli accadono una sola volta, altrimenti diventano giochi di prestigio. Mentre Diego guida l’Argentina alla vittoria del Mondiale messicano, l’Argentina di Hugo vince il Sudamericano under-17. È il primo trionfo del ragazzo. E resterà l’ultimo.

Diego chiede a gran voce il suo acquisto. “Tra due anni mi scade il contratto con il Napoli. Potrei rinnovarlo solo se la società prende mio fratello Hugo. Mi piacerebbe tanto giocare con lui”, dice ad agosto. “Se a Napoli venisse mio fratello sarei davvero felice”, ribadisce a novembre. I capricci dei sovrani spesso si chiamano ordini. Così un anno dopo Moggi si mette al servizio della causa. Acquista Hugo, ma sa benissimo che il suo talento è sottodimensionato per quel Napoli. Così inizia a cercare in giro un acquirente. Anche solo temporaneo. Ed è qui che realtà e leggenda si intrecciano insieme fino a diventare un groviglio. Il Pescara tratta con il Napoli la cessione di Pagano. Qualcuno chiede a Giovanni Galeone il nome di una contropartita da inserire in un possibile affare. L’allenatore pronuncia solo un nome: Hugo Maradona. Ma non nel senso sperato. Per lui va bene chiunque. Tranne che l’argentino.

Moggi allora inizia a parlare con il Pisa. Si parla addirittura di un prestito con possibilità di controriscatto per il Napoli fissato già a due miliardi. Ma anche stavolta scoppia tutto come una bolla di sapone. Alla fine l’ex capostazione decide di tirare fuori l’asso dalla sua manica. Telefona all’amico Costantino Rozzi. Per mesi. Prova a persuaderlo. In tutti i modi. Secondo La Repubblica il sì arriva grazie alle cessioni “a prezzi cordiali” di Carannante e Celestini. “Nella prima squadra dell’Argentinos Juniors ha giocato anche se il maggiore fratello era emigrato e nulla più gli dovevano a Buenos Aires – risponde Gianni Brera a un lettore – Io ho visto Hugo in un “mundialito” organizzato da capitan Berlusconi a Genova. Se debbo dirgliela, lo stile di Hugo mi è sembrato più ortodosso che non sia quello del fratellone. È chiaro che lo stile in sé conta poco se non lo sorregge ed anima l’invenzione: e qui Hugo non mi ha proprio incantato. Però, ripeto, non mi è sembrato una sverza quale aspettano di vedere in lui i malevoli”.

Costantino Rozzi va addirittura oltre: “Hugo non è una scommessa ma un grande giocatore, abbiamo fatto un affare a prenderlo e vedrete che in campionato farà faville. Maradona è un giocatore di classe superiore, potenzialmente simile al fratello Diego, intanto il nostro Hugo è più bello: anche i nuovi compagni di squadra sono tutti con lui”. El Turco resterà un’illusione, una chimera nella quale non ha creduto nessuno. Tranne Diego. Ad Ascoli tutti si aspettano classe abbacinante. Hugo dice di essersi quasi sentito male dopo i primi applausi ricevuti. Peccato che saranno anche gli ultimi. Il gol non arriva mai. E il ragazzo finisce intrappolato in quella poesia di Cesare Pavese che dice: “Non c’è cosa più amara dell’alba di un giorno in cui nulla accade”. La deferenza che viene utilizzata con Diego si trasforma in ferocia con Hugo. Il ragazzo viene chiamato bidone, pacco, bufala, fregatura, raccomandato. Fino a quando la stampa non lo trasforma in zimbello, non gli cuce addosso quel “mio fratello è figlio unico”. In tutto racimola 13 presenze. Poi viene ceduto. Diego non coronerà mai il sogno di giocare con il fratello. Ma d’altra parte Richard Bach scriveva che “di rado i componenti di una famiglia crescono sotto lo stesso tetto”.

Mentre Diego trasforma la periferia del calcio in centro, Hugo inizia il suo triste peregrinare per i sobborghi del pallone. Prima al Rayo Vallecano, nella seconda serie spagnola. Poi al Rapid Vienna. I gol sono sporadici, elementi incidentali. Hugo non corre. Lui rincorre. Se stesso, la sua dichiarazione di indipendenza dal fratello. Senza mai riuscirci. Sbarca in Venezuela. Poi in Uruguay e infine in Giappone. Restando sempre fedele a se stesso. Restando per tutti solo l’altro Maradona. Una vita all’ombra di un sole che non si eclissa mai e che lo ha portato a stabilirsi a Napoli. La maledizione della consanguineità lo trasforma in cimelio, nella cosa mortale rimasta più vicina a Diego. Qualche mese fa aveva ricordato Diego con una frase particolare: “Ognuno crede in Dio come può, io credo in un nuovo incontro. Dio è grande sa ciò che ha fatto, fa e sta per fare. Me lo immagino intorno a un tavola, con i miei genitori che ridono e litigano, quello che abbiamo sempre fatto, perché litighiamo tanto”. Ieri Hugo si è spento. E forse intorno a quella tavola ci sarà anche lui. D’altra parte, come diceva Pasolini: “Mi sa che la vita non è niente. È la morte che è tanto”.

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