Lo scatto ha lasciato perplesso più di qualche utente. Al centro dell’inquadratura si vede Ruben Yttergård Jenssen. Il corpo girato verso sinistra, le braccia dietro la schiena, il sorriso stirato appena percettibile. Se ne sta in piedi sul campo del Tromsø con addosso la nuova maglia del club. Ed è proprio questo il problema. Perché la stoffa non è bianca e rossa in omaggio alla tradizione. Stavolta si tratta di una cacofonia di colori. Un amaranto che sconfina in azzurro. Con una serie di puntini celesti che si susseguono uno accanto all’altro. È un cazzotto in un occhio. Ma è soprattutto un pugno allo stomaco. Perché quella maglia è un’intuizione che sconfina nella genialità. La trama crea un QR code. E inquadrandolo con il proprio cellulare si finisce su una pagina del sito del Tromsø.

Non si tratta dello shop ufficiale, ma di una sezione totalmente dedicata alla cronaca di quanto sta succedendo nella preparazione dei Mondiali in Qatar, il sogno scintillante dell’emirato che è stato eretto sul sangue dei lavoratori stranieri e sul costante calpestio dei loro diritti. È un’operazione che costringe a guardare proprio quello che in molti hanno voluto ignorare. Soprattutto i vertici del calcio internazionale. “Speravamo che la FIFA e il Qatar ci ascoltassero l’ultima volta – scrive il club – ma ovviamente il denaro ha ancora la meglio sui diritti e sulle vite umane. Ricordatevi che un giorno farete la vostra contabilità”. Parole dure come pietre che introducono un concetto dolce, che riaffermano l’idea di una fratellanza universale. Il club più a nord del mondo si è fatto ponte, retta che lo aggancia a una realtà lontana 7mila chilometri. Denunciandone le storture. Perché da più di un decennio il Qatar è alle prese con lo sportwashing, una pratica particolare che Amnesty International definisce come il tentativo di “sfruttare lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani”.

Chirurgia estetica morale che porta a nascondere la polvere sotto il tappeto più bello. “Bene, siamo tornati – scrive il Tromsø, che anche questa volta sta portando avanti l’iniziativa in collaborazione proprio con Amnesty International e Malcolm Bidali, l’ex lavoratore migrante che è stato arrestato in Qatar per aver raccontato sul suo blog le condizioni riprovevoli degli operai stranieri – Guardate il nostro nuovo kit. Il codice QR vi porta qui. Una pagina che vi darà sempre più informazioni su quello che sta succedendo in Qatar. Per favore, leggete e riflettete su questa domanda: quante violazioni dei diritti umani ci vorranno prima che la comunità del calcio si unisca per chiedere una migliore protezione per i lavoratori migranti?”. E ancora: “Non possiamo fingere che il calcio e la politica non siano collegati, e non dobbiamo mai guardare dall’altra parte quando qualcuno usa il nostro bel gioco per mettere in ombra le violazioni dei diritti umani. Possiamo cambiare questo, insieme. Da tutti noi del nord: per favore unitevi a noi, così possiamo far diventare la nostra palla di neve sempre più grande”.

È Davide che affronta Golia. Idee contro petrodollari. Una piccola realtà che gioca in uno stadio da meno di ottomila posti contro una potenza che ha costruito intere cittadelle posticce per ospitare un evento. Solo che stavolta l’esito del confronto potrebbe non essere così scontato. Perché il Tromsø vuole essere molto di più di una zanzara che ronza nelle orecchie dell’emirato. Vuole aprire un dibattito. E non ha paura di pronunciare apertamente la parola “boicottaggio”. A febbraio, prima della partita contro Gibilterra, il club aveva deciso di scrivere alla Federcalcio nazionale, invitandola a sostenere il boicottaggio della Coppa del Mondo del 2022. “Crediamo che la Nazionale norvegese dovrebbe dire ‘no, grazie’ al viaggio in Qatar qualora riuscisse a qualificarsi alla fase finale”. Buona parte del problema è racchiuso tutto in quella parola: qualora. Perché alla fine la Norvegia ha chiuso al terzo posto il proprio girone. E ha mancato la qualificazione alla Coppa del Mondo. Una delusione non cambia la voglia di farsi sentire, di riaffermare un principio dato ormai per acquisito in alcuni Paesi ma che in Qatar è stato sistematicamente eluso. “I lavoratori edili impiegati nella costruzione di stadi e infrastrutture vivono in condizioni indegne; inoltre il processo che ha portato all’assegnazione dei Mondiali al Qatar è stato caratterizzato da atti di corruzione – aveva aggiunto il Tromsø – La strategia di dialogo e critica costruttiva con gli organizzatori non ha avuto successo, perciò bisogna riconsiderarla: è inaccettabile che i Campionati del Mondo si giochino in un Paese dove viene praticata la corruzione, dove i lavoratori sono degli schiavi dei tempi moderni e tanti di loro hanno perso la vita. È tempo di reagire duramente”.

La Norvegia ha raccolto l’invido del club. Ma solo parzialmente. Prima di alcune partite di qualificazione la Nazionale è scesa in campo per gli inni nazionali con una t-shrit con scritto “Diritti Umani, Dentro e fuori il campo”. Un’iniziativa che ha fatto molto rumore. Atri sei club del campionato norvegese hanno sposato la causa del Tromsø. Poi si sono aggiunte Germania, Danimarca e Olanda. Il boicottaggio dei Mondiali, però, rimane un’utopia. Troppi soldi investiti, troppi soldi da ridistribuire, troppi interessi da salvaguardare. Anche quelli dei calciatori, che potrebbero vedersi passare davanti un treno per la gloria. Collettiva e individuale. Non salirci sopra sarebbe da supereroi. O da illusi. E mai come in questo momento il calcio ha bisogno di razionalità. Il Tromsø l’ha capito. Da tempo. Così ha deciso di portare avanti individualmente una battaglia che dovrebbe essere collettiva. E non c’è niente di più eroico.

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