Sequestrati da commando armati, detenuti in un luogo segreto, pestati e interrogati per sette giorni, fino all’intervento del Dipartimento di Stato Usa. È successo a Tripoli a un team di giornalisti americani che stavano indagando sull’inferno delle prigioni per migranti in Libia, e sui nessi con la politica italiana ed europea che ha di fatto appaltato all’ex regno di Gheddafi il contenimento dei flussi migratori dall’Africa.

È accaduto nel maggio 2021, ma l’episodio è stato svelato solo oggi da Ian Urbina, il giornalista investigativo rapito insieme ai colleghi, in un lungo reportage sul New Yorker. In esclusiva per l’Italia, la storia del rapimento, l’investigazione sui crimini commessi dalle milizie nei centri di detenzione libici e le responsabilità italiane ed europee sarà pubblicata su FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 11 dicembre.

Ian Urbina e i suoi colleghi stavano investigando in particolare sull’assassinio di un giovane migrante della Guinea-Bissau, Aliou Candè, freddato dalle guardie durante la rappresaglia per il tentativo di fuga di un altro gruppo di detenuti nella prigione di Al Mabani, una delle più importanti del Paese, controllata dalla brigata Zintan e avviata, in una fabbrica di tabacco dismessa, da uno dei suoi leader, Emad al-Tarabulsi. La brigata è alleata del governo sostenuto dall’Onu e dall’Unione europea. Il brutale sequestro dei giornalisti è da attribuire, secondo Urbina, a membri della Brigata Al Nawasi, che funge da servizio segreto per lo stesso governo.

Urbina, già inviato del New York Times e vincitore di un Pulitzer, è stato prelevato dalla sua stanza d’albergo il 29 maggio 2021 da un gruppo di uomini armati e mascherati, preso a calci, colpito in testa, incappucciato e portato via a piedi nudi verso un luogo ignoto. Nel frattempo, il pick up che portava a cena il resto del team veniva bloccato per strada, l’autista tirato fuori e picchiato, i colleghi del giornalista condotti nello stesso luogo di detenzione.

Urbina racconta di essere stato interrogato più volte dai miliziani, spesso con una pistola in bella mostra su un tavolo, accusato di essere della Cia e, soprattutto, di voler mettere “in cattiva luce” la Libia, mentre gli Stati Uniti avevano “i loro problemi”, per esempio, “l’uccisione di George Floyd”. I miliziani contestavano che raccogliere testimonianze dei migranti e cercare di ottenere informazioni sulle prigioni era “vietato”. Dopo una settimana, anche grazie all’allarme lanciato dalla moglie che era al telefon0 c0n lui durante il sequestro, il Dipartimento di Stato è riuscito a ottenere la liberazione del giornalista e di tutto il team.

Leggi il reportage completo su FQ MillenniuM in edicola da sabato 11 dicembre

Articolo Successivo

Covid, Karikò (Biontech): “Non sappiamo se è necessario adattare il vaccino alla variante Omicron”

next