Tim, dopo l’Opa lanciata dal fondo americano Kkr, potrebbe cambiare proprietà. L’interesse per la “vecchia” Telecom è sempre alto, visti i continui “assalti”, soltanto che ogni volta sono operazioni non ancorate a logiche industriali ma più a speculazioni finanziarie. In questo post offro al lettore alcuni dati utili a comprendere meglio la vicenda.

Il confronto con le altre Telco europee, secondo un recente report di Mediobanca, evidenzia una realtà diversa da molti luoghi comuni: Tim è tutt’altro che un’azienda allo sbando, ha diversi problemi ma ha bisogno soprattutto di essere rilanciata. Il primo elemento da segnalare è che Tim è relativamente piccola rispetto alle altre Telco. In Europa occupa il settimo posto per entità dei ricavi, mentre a livello mondiale occupa il 17esimo posto. “Piccolo è bello” è uno slogan che mal si attaglia sui mercati iper-competitivi e allargati com’è quello delle telecomunicazioni.

Un altro elemento da rilevare è che le maggiori società telefoniche appartengono a soggetti nazionali, meno che Tim. Una maggiore attenzione alla “italianità” delle nostre grandi compagnie dovrebbe essere compito precipuo di chi ci governa e speriamo che questo aspetto venga ora preso in seria considerazione. Un limite di Tim è la scarsa capacità di espandersi all’estero. Il fatturato estero è pari al 23% dei ricavi complessivi, mentre per Deutsche Telekom il 76%, Telefonica il 71% e la francese Orange il 41%. Le poche “incursioni” estere di Tim sono state fallimentari, com’è successo in qualche paese dell’est e nel Sud America. Un limite che Tim si porta dietro da anni e che non riesce a superare.

Non si capisce, per esempio, come non riesca ad avere una presenza forte nell’area del Mediterraneo, dove in teoria dovrebbe “giocare” in casa. Quando i ricavi negli ultimi cinque anni diminuiscono del 20%, è d’obbligo allargare i propri perimetri di mercato. Il confronto sulla produttività, misurata dal valore aggiunto per dipendente (cioè l’apporto del personale alla creazione del valore) e il costo medio per dipendente, non vede Tim soccombere; anzi, è in linea con i grandi operatori. L’indebitamento – altre compagnie sono in situazioni peggiori – è un peso che Tim dovrebbe contenere (a ogni otto euro di ricavo, Tim ne paga uno alle banche).

Come si vede dal confronto con gli altri operatori europei, Tim non ne esce perdente. Qualcuno sostiene che le difficoltà di oggi siano legate alla scelta di sostenere Dazn sui diritti del campionato di calcio. Potrebbe essere vero. D’altronde la stessa esperienza di TimVision non sembra abbia portato risultati positivi. La vagheggiata “convergenza” fra reti e contenuti è soltanto un’illusione, una strada per le Telco fallimentare. Se anche Rai e Mediaset, nate per “fare” televisione, soccombono a Netflix, mi risulta difficile immaginare che Tim possa uscire vincente nella competizione fra i media.

È impossibile prevedere come finirà la scalata su Tim. In queste vicende, dove si toccano gli assetti strategici del paese (si pensi alla questione della rete), dovrebbe emergere forte l’interesse nazionale. Chi dovrebbe proteggerlo? Il Governo. È a Palazzo Chigi che si dovrebbe decidere cosa fare di Tim, un patrimonio del paese da salvaguardare. Decidere se ci debba essere una rete unica e pubblica, com’era nei desiderata del precedente esecutivo, oppure una concorrenza fra più reti, una soluzione preferita dal Governo attuale ma che la vicenda Tim-Kkr mette in discussione. Lo scorporo della rete da Tim per farla confluire in una società mista pubblico-privato, lasciando a Tim le redditizie attività di servizio, potrebbe essere la soluzione da preferire. Il problema è sempre lo stesso: trovare un equilibrio fra gli interessi del Paese e quelli del mercato.

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