La pubblicazione dello studio Cresme in due volumi sull’economia della Campania è stata l’occasione per una riflessione da parte degli autori e di altri studiosi in un convegno molto partecipato che si è tenuto presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. La registrazione del convegno è disponibile in streaming presso il canale YouTube dell’associazione Merita, che ha promosso l’iniziativa con lo stesso Cresme e l’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili).

Colgo l’occasione per segnalare ai lettori i canali social dell’associazione Merita, che pubblica continuamente convegni di grande interesse sull’economia della Campania e meridionale in genere. L’associazione è presieduta dall’ex Ministro del Mezzogiorno Claudio De Vincenti.

Lo studio è ampio e completo e affronta diversi aspetti dell’economia regionale. Il primo volume fornisce una serie di evidenze empiriche, a cominciare dai problemi demografici, accentuati dal recente risorgere dei flussi migratori; il secondo volume, a cura di diversi economisti sia accademici che istituzionali, affronta temi più specifici, fra cui si segnalano: l’evoluzione geografica del sistema produttivo, la rivoluzione del settore della cultura che potrebbe nascere dall’assegnazione a Procida del ruolo di capitale europea della cultura, l’innovazione industriale e così via.

I capitoli del rapporto evidenziano luci e ombre. Partiamo da queste ultime. Ognuna delle crisi recenti dell’economia italiana, la crisi economico finanziaria alla fine degli anni 2010 e l’attuale pandemia, ha contribuito ad accentuare il divario fra Mezzogiorno e Campania, da un lato, e il resto del paese, dall’altro. Anche il turismo nel quale il Mezzogiorno dovrebbe avere un vantaggio competitivo non raggiunge i livelli attesi: la regione Campania ha meno turisti dell’isola di Creta, la quale è molto più piccola e ha molte meno risorse turistiche.

Una delle principali conseguenze delle crisi è il permanere di tassi di occupazione medi in Campania molto inferiori rispetto a quelli della regioni del centro-nord: 44% soltanto, mentre in Emilia Romagna è al 74% e in Trentino al 75%. È sorprendente che un livello così basso di occupazione non comporti una vera e propria rivolta sociale. Forse, a tenere sotto controllo la situazione è stato il successo che nel Mezzogiorno, e in Campania in particolare, ha avuto il reddito di cittadinanza.

Tuttavia, la soluzione alla bassa occupazione deve essere la crescita economica, non il sostegno al reddito di chi non ha lavoro. E i segni negli ultimi mesi sembrano essere incoraggianti e favoriscono un certo ottimismo. La direttrice, Maria Antonia Ciocia, ha sottolineato che l’economia della Campania è uscita negli ultimi anni da una fase di crisi economica abbastanza profonda che però ora è possibile superare anche grazie a diversi strumenti prima non disponibili, come il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr), che dovrebbe favorire anche la ripresa economica di questa regione.

Tutti i contributi sottolineano la fase espansiva che l’economia campana sta attraversando, dopo una lunghissima fase di rallentamento e di bassa crescita che ha lasciato molte perdite sul terreno. Il Pnrr rappresenta un’importante novità poiché pone il tema della coesione al centro della crescita del paese, ciò che la Svimez ha sempre sostenuto essere fattore prioritario. L’Unione Europea ha compreso che se non si realizza la coesione e non si riducono le diseguaglianze geografiche, fallisce non solo la strategia italiana, ma anche quella europea alla base del Next Generation Fund. L’Italia ha avuto una quota di fondi superiore a quella degli altri paesi membri proprio a causa dei suoi forti squilibri territoriali. Non è un caso che la quota per il Mezzogiorno sia pari al 40% delle risorse complessive. E uno dei termini in cui verrà valutata l’efficacia del Pnrr è se andrà a ridurre i mille divari fra centro-nord e sud in termini di servizi, produttività etc. Non bisogna solo spendere velocemente, ma spendere in modo da ridurre i divari territoriali.

Però se le pubbliche amministrazioni del Mezzogiorno hanno meno capacità organizzativa spenderanno di meno e non si riducono i divari. Il divario di qualità delle istituzioni del Mezzogiorno potrebbe limitare la sua spesa e non consentire non solo di raggiungere l’obiettivo del 40% di spesa, ma, ancor peggio, di ridurre i divari di competitività del Mezzogiorno rispetto al resto del paese.

Un problema che molti degli intervenuti evidenziano è il rischio di non riuscire a spendere subito e bene i fondi del Pnrr, visto che finora la pubblica amministrazione ha avuto problemi a spendere i fondi ordinari. Cosa accadrà quando i fondi aumenteranno a causa del Pnrr? In effetti, la pubblica amministrazione italiana, e in particolare quella meridionale, sono state abituate a non spendere negli ultimi decenni di controllo del deficit, ora devono invece spendere in poco tempo somme ingenti di danaro. Viene in mente la durata delle opere pubbliche in Italia e nel Mezzogiorno in particolare: la media è di circa dieci anni. Si riusciranno a ridurre questi tempi per attuare il Pnrr?

Per Amedeo Lepore, è importante che migliori la qualità della spesa, oltre che la velocità. La spesa pubblica deve essere utile per accrescere l’occupazione del Mezzogiorno e, quindi, la capacità innovativa delle imprese, ciò che favorirebbe una maggiore competitività delle imprese meridionali. Mario Mustilli ha concluso notando che il Mezzogiorno ha bisogno di coraggio e innovazione per superare i propri limiti, altrimenti l’unica speranza dovrà essere riposta nel governo nazionale, piuttosto che nelle pubbliche amministrazioni locali. Traettino sostiene che le risorse del Pnrr debbano essere messe nel cuneo fiscale per favorire gli investimenti delle imprese, oltre che i consumi delle famiglie. Infine, l’assessore regionale al governo del territorio, Bruno Discepolo, ha sottolineato che anche nel Mezzogiorno alcune pubbliche amministrazioni hanno un ruolo di crescita, come negli ultimi anni la Regione Campania.

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