La scia di sangue che nelle ultime settimane ha straziato il Paese deve allarmare e dovrebbe anche vedere tutte le forze politiche unite per un serio e rigoroso contrasto alla violenza contro le donne. Da gennaio sono state uccise 104 donne, una ogni tre giorni. Un massacro.

Chi ha fatto loro del male aveva le chiavi di casa: partner, fidanzati, mariti, ex, chi avrebbe dovuto amare e proteggere. Da ultimo, a Reggio Emilia, venerdì 19 novembre, si è registrata l’uccisione di una giovane donna di 34 anni, Juana Cecilia Hazana Loayza, che lascia una bambina di appena un anno e mezzo. Questa storia è emblematica di un sistema di protezione delle donne che presenta sempre più delle falle evidenti.

Juana ha fatto quello che lo Stato chiede di fare, ha denunciato il suo persecutore, il suo ex compagno Mirko Genco, non una bensì due volte. Dopo le sue denunce Genco era stato fermato, poi scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Quattro giorni dopo era stato nuovamente fermato per aver violato il divieto ed essersi reso protagonista di nuovi atti vessatori. Finito ai domiciliari, gli arresti gli sono poi stati revocati il 4 novembre scorso in seguito alla sentenza di patteggiamento a due anni di reclusione con pena sospesa, decisa dal Tribunale.
A un individuo del genere è stata restituita la libertà il 4 novembre, e lui ci ha messo 15 giorni esatti a portare a termine quello che era il suo obiettivo, uccidere la sua vittima. L’ha fatto il 19 novembre.

Non credo che possiamo definire una storia del genere in altro modo che come una vergogna per lo Stato, una prova d’evidenza che qualcosa di importante non funziona nel sistema; perché, se una donna che per ben due volte trova il coraggio di denunciare, si fida e affida alle istituzioni, poi non è protetta, allora sono le istituzioni ad aver clamorosamente fallito per non aver valutato correttamente il rischio, per non aver alzato un muro di tutele che la proteggesse con efficacia dal suo carnefice. Ma le scuse non bastano, questo è evidente. Bisogna agire.

Le leggi ci sono, sono più di quarant’anni che si legifera in materia di contrasto alla violenza di genere, ma secondo i dati del Ministero dell’interno, nel primo semestre del 2021 i “reati spia”, come per esempio lo stalking e i maltrattamenti, sono stati 19.128, con l’incidenza delle vittime donne che rimane invariata, attestandosi al 79%. Allora cosa non funziona? Non funziona che le leggi evidentemente non bastano, bisogna cambiare l’approccio o meglio la mentalità di chi maltratta, perché la violenza contro le donne è anche e soprattutto un fatto culturale che si nutre di pregiudizi, stereotipi, discriminazioni. Omertà e incapacità di amare.

Nei femminicidi, infatti, l’uomo considera la donna un suo possesso, un oggetto. Per questo l’educazione dei giovani costituisce una delle chiavi di volta per un reale cambio di passo della nostra società. E uno degli strumenti per prevenire e contrastare la violenza di genere è quello di introdurre l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole di ogni ordine e grado. Il fattore educativo è fondamentale, e io ci credo talmente tanto che su questo tema ho presentato una proposta di legge, perché ritengo che solo con l’educazione, la formazione e le giuste informazioni si possa invertire la rotta.

Sviluppare l’intelligenza emotiva a partire dalla tenera età aiuta ad avere maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e sentimenti per creare delle buone relazioni, per saper litigare bene.
Come si reagisce a un rifiuto, perché imparare a gestirlo sin da bambini significa trovarsi preparati da grandi, significa conoscere un alfabeto gentile delle emozioni che non prevede discriminazioni.

La mia proposta di legge vuole aprire una strada che nasce dalla consapevolezza che il Paese sta pagando a caro prezzo la mancanza di un’educazione, di una formazione, in ambito sociale, sanitario, psicologico in materia di sessualità, relazioni interpersonali e gestioni dei rapporti. Nel mio testo prevedo due ore di lezione al mese con un approccio laico nell’educazione all’affettività e alla sessualità, nel rispetto delle varie età, con interventi multidisciplinari che implicano la presenza di più figure professionali preparate e competenti quali, per esempio, psicologi, psicoterapeuti, sessuologi, ostetriche, ginecologhe.

I temi che potranno essere trattati in ambito scolastico sono molteplici: dalla tutela della salute sessuale intesa quale prevenzione delle malattie trasmissibili, all’attenzione degli aspetti relazionali ed emotivi della sessualità per accompagnare i ragazzi e le ragazze nel loro percorso di crescita consapevole che li porterà a diventare autonomi e a compiere scelte responsabili nel rispetto della parità di genere e della persona in generale. La scuola, intesa come comunità educante, deve essere il luogo dove, attraverso l’insegnamento dell’educazione affettiva e sessuale, ognuno possa imparare a conoscersi e a conoscere l’altro diverso da sé. Solo in questo modo potremo estirpare fin dall’origine tutti quei germi dell’intolleranza che possono degenerare in comportamenti violenti e nella peggiore dei casi nell’omicidio.

Educazione in primo piano, ma serve anche formazione. Tutti gli operatori che ruotano attorno alla violenza, avvocati, magistrati, forze dell’ordine, assistenti sociali, medici e insegnanti devono essere preparati e in grado di ascoltare e interloquire con una vittima che ha subito violenza. Come noto, purtroppo non è sempre così. Bisogna, inoltre, garantire una rete omogenea su tutto il territorio nazionale dei centri antiviolenza e delle case rifugio con risorse che devono arrivare in modo tempestivo e sistemico.

Omogenea è una parola chiave. Significa che le donne della Calabria o della Sicilia devono poter contare sullo stesso sostegno e la stessa prossimità esistente in Emilia-Romagna o in Friuli. La vittima di violenza deve sapere che non è da sola e che può contare su una rete di prossimità territoriale coordinata e organizzata. Le donne non chiedono vendetta ma protezione, di essere credute, di non essere colpevolizzate se denunciano, chiedono un’alternativa alla violenza.

Dare a chi denuncia la possibilità di cambiare vita a partire da un lavoro che le renda autonome è fondamentale. Così come è fondamentale migliorare le misure di protezione a tutela delle donne, come per esempio potenziando l’utilizzo dei braccialetti elettronici. Perché nel caso di Juana Cecilia non è stato applicato al suo persecutore, viste le reiterate violazioni del divieto di avvicinamento. L’utilizzo avrebbe consentito di rilevare la presenza del suo ex compagno nei pressi della vittima e intervenire per tempo. Su questo aspetto, ho presentato una interrogazione parlamentare alla ministra della Giustizia Marta Cartabia.

In via di prevenzione, inoltre, occorre potenziare i centri per gli uomini maltrattanti, prevedendo un organismo terzo che controlli il percorso e l’effettivo risultato dei maltrattanti in modo che queste persone, questi uomini violenti, possano prendere consapevolezza del crimine commesso e ravvedersi. Detto più chiaramente, se lo Stato non è sicuro e non tocca con mano il recupero, il pentimento e il cambiamento di queste persone non può concedere loro la libertà. Lo dobbiamo a Juana e alle troppe donne morte in questi anni per violenze e recidive che potevano essere evitate. Il carcere non è e non può essere un luogo dove si scontano le pene e basta; deve anche essere un luogo di recupero, soprattutto per chi si macchia di questo tipo di reati.

L’auspicio, in questo 25 novembre, è che questi impegni non restino parole su carta, ma si trasformino in azioni, norme, sostegno concreto – anche e soprattutto economico. Se come Istituzioni falliamo, avremo reso un pessimo servizio alle generazioni future. Non possiamo permetterlo.

La fondazione del Fatto Quotidiano, insieme alla onlus Trama di Terre, finanzia borse di autonomia per sostenere donne sopravvissute alla violenza. Visita il sito e scopri come aiutarci: clicca qui

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