Hana Silashi è sfuggita ai nazisti seppellendosi insieme ad altri 45 ebrei in un bunker per circa un anno e mezzo. Siamo a Drohobycz, Ucraina, allora Polonia. Il ghetto sta per essere distrutto e alcune famiglie, raccolte intorno ai Mayer e agli Schwartz, decidono di spendere le ultime risorse per farsi costruire un bunker da Aron Szapiro, detto Al Capone, il quale già vive in un leggendario rifugio sotterraneo da lui stesso realizzato con persino uno scaldabagno fatto con un radiatore, la radio e via di fuga nelle fogne. Il bunker dei Mayer e degli Schwartz è più piccolo ma sempre dotato di corrente e di stufa-cucina. Progettato per 16 persone, se ne aggiungono altre 30. Tra queste Hana e la cuginetta Muszka. Il loro arrivo è visto come un pericolo. I bambini piangono e fanno scoprire i rifugi. La loro salvezza sarà un miracolo nel miracolo. A Drohobycz sopravvivrà solo qualche centinaio di ebrei su oltre 15mila e pochissimi erano i bambini. Oggi Hana ha 81 anni e vive a Rehovot, vicino a Tel Aviv. Figlia della Shoah, troppo piccola per ricordare e troppo traumatizzata per dimenticare, ha percorso una lunga e dolorosa strada per elaborare la memoria di quanto le è accaduto.

“Quando nel ’51 siamo sbarcati a Haifa si stava affermando una nuova generazione di ebrei” racconta a ilfattoquotidiano.it nel suo appartamento di Rehovot. “Combattevano per la patria, erano pieni di energia e coraggio. Noi eravamo visti come un branco di pecore scampate al macello. Il nostro passato non era qualcosa di cui andare fieri. Molti di noi volevano dimenticare e iniziare una nuova vita. In casa non si parlava di quello che avevamo vissuto. Solo con il processo Eichmann ci sono state molte testimonianze di sopravvissuti e abbiamo iniziato a riappropriarci del passato. In quegli anni – i primi anni Sessanta – volevo studiare medicina. L’accesso era molto difficile, ma sono riuscita a entrare all’università di Gerusalemme. La sala delle autopsie si trovava sotto terra e io mi sentivo male e sudavo. Non capivo perché. E così ho lasciato gli studi. Dopo una terapia psicologica ho capito che dipendeva dall’esperienza del bunker.

Ivan Bur, il custode ucraino del bunker, a un certo punto si mette in testa di fare fuori con una iniezione quelli che sono entrati per primi: sfiniti, malati e senza più denaro. Voleva far posto ad altri ebrei per incassare altri soldi. Hai appena fatto la terza dose di vaccino anti-Covid, ma le iniezioni erano un problema per te.
Se uno dei miei due figli doveva fare l’esame del sangue, io non potevo stare nella stessa stanza. Leggendo le memorie di Bernard Mayer negli anni novanta ho capito da dove veniva questa paura delle iniezioni. Se non lo avessero fermato Ivan Bur avrebbe ucciso. Era mosso solo da amore di sé e interesse economico. Quando Bernard mi ha telefonato da Miami per dirmi che voleva farlo riconoscere tra i Giusti ho detto che non ero d’accordo. Aveva le amanti nel bunker e le portava su per farci l’amore. Quando stavano arrivando i russi se ne è andato abbandonandoci.

Molti sopravvissuti hanno lasciato la Polonia nel ’46 dopo il pogrom di Kielce, il linciaggio scatenato dalle solite leggende di rapimento dei bambini cristiani e costato la vita a oltre 40 ebrei. Voi avete atteso ancora cinque anni.
Gli ebrei sopravvissuti della Galizia, la regione di Leopoli diventata sovietica dopo la guerra, si sono trasferiti nei territori tedeschi assegnati alla Polonia. Noi siamo finiti a Bytom e l’attività di mio padre, uno studio dentistico, andava bene. Facevamo quella che si può definire una vita agiata non solo per un regime comunista. Ma giungevano notizie di ebrei riconosciuti sul treno, fatti scendere e uccisi. E così mio padre ha deciso che dovevamo fingerci cattolici continuando a essere ebrei di nascosto come i marrani nella Spagna dell’Inquisizione. Frequentavo una scuola religiosa e andavo a messa, ma sapevo di essere ebrea. In una piccola stanza tenevamo le candele per lo shabbath, rispettavamo il digiuno a Yom Kippur e avevamo il pane azzimo per Pessach. Ovviamente di nascosto. Per tutto il tempo abbiamo indossato una maschera.

Siete riusciti a espatriare anche se, essendo classificati come cattolici, è stato molto difficile ottenere dal governo polacco un visto per Israele.
Da Varsavia siamo andati in Italia con un treno. Avevamo con noi l’oro dei denti per corrompere la polizia polacca ai controlli. Un visto ci era già stato annullato e solo la partenza della nonna per Israele e la sua richiesta di ricongiungimento ci ha permesso di averne un altro. Quando siamo arrivati a Venezia mio padre è sceso, mi ha preso in braccio, si è messo a correre lungo il binario e ha urlato: “Siamo liberi!”. Il 14 gennaio ho festeggiato il compleanno sulla nave in mezzo a una tempesta.

La scuola cattolica non è stato l’unico luogo dove hai indossato una maschera. In una stanza tieni appesa una foto in cui eri vestita da contada ucraina.
Dopo l’ispezione dei nazisti, arrivati a un passo dal bunker, la mamma era terrorizzata e voleva salvarmi. Conoscevamo una persona molto stimata, Naftali Tulek Backenroth. Apparteneva a una famiglia di petrolieri ebrei. I tedeschi gli avevano dato la responsabilità di un campo di lavoro per rifornirli di cibo. Mi ha affidata a lui dicendomi che dovevo dimenticare il mio nome. Backenroth mi ha portata in un villaggio ucraino spacciandomi per una bambina cattolica sfollata da Varsavia. In quel villaggio c’era un prete e mi amava molto. Un giorno mi ha vestita con abiti tipici ucraini e mi ha fatto fare una fotografia in cui a forza di mangiare patate sembravo una patata. Avevo un aspetto allegro e felice. Una sera – immagino fosse sera – i contadini tornavano dai campi e i due figli sono corsi loro incontro e li hanno baciati. Io dietro la porta piangevo. Credo che la mia paura dell’abbandono derivi da quel periodo. Dopo un po’ – non so quanto – la mamma sentiva la mia mancanza e sono tornata nel bunker. Parlavo ucraino, pretendevo di mangiare patate e una volta ho detto: “State zitti se no vengono gli ebrei e ci ammazzano”. In poco tempo sono riusciti a trasmettermi l’odio per gli ebrei. E’ terribile, incredibile. Tutti dovremmo riflettere come sia facile influenzare un bambino. In senso negativo o positivo.

Quale relazione esiste tra la tua arte e la persecuzione nazista?
Dopo la terapia ho partecipato a una mostra di artisti sopravvissuti alla Shoah con un’opera che raffigura tre tronchi, ciascuno con un buco al centro. Il titolo è I tre buchi neri. Dipingo alberi. Tronchi e rami. Sempre nudi. Credo di sapere perché. Prima di entrare nel bunker ci siamo nascosti nella neve sotto alberi spogli. Guardavo e vedevo un pezzo di tronco, pochi rami e qualche scorcio di cielo grigio. Sento che tutti i colori e i sentimenti espressi nei miei dipinti hanno radici nel pianeta maledetto. Della Galizia nazista. I miei dipinti sono una richiesta di misericordia, comprensione e amore. I sopravvissuti sono come scottati. La scottatura non va mai via e appena la tocchi salti in aria per il dolore. Ci sono persone che escono di prigione e sono libere. Altre escono ma si portano dietro la prigione per tutta la vita. Io mi sono portata dentro il bunker per tutta la vita. Finirò raccontando il mio quadro chiamato Continuità. Ho dipinto una donna che dà alla luce un bambino. Non è sola e sullo sfondo ci sono altre silhouette di donne che partoriscono. Questa è la mia fede nell’umanità e nell’amore.

Ci sono persone che paragonano le limitazioni contro i non vaccinati alle discriminazioni contro gli ebrei da parte dei nazisti.
Non riesco a capirli. Il vaccino ha salvato così tante vite e la loro opposizione a riceverlo mette a rischio la vita di innocenti: donne, bambini e anziani. L’obiettivo dei nazisti era la distruzione degli ebrei solo a causa dell’odio. Come è possibile paragonare una cosa all’altra, un dono della vita come il vaccino alla morte? In Israele il 90 per cento dei malati del virus Delta non è vaccinati. Hanno occupato i respiratori negli ospedali, quindi c’era una carenza di macchinari per le altre operazioni. Ho molta rabbia verso di loro.

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