22 febbraio-22 ottobre: otto mesi fa l’Italia perdeva uno dei suoi più giovani e brillanti diplomatici, in un agguato i cui contorni sono lontani dall’essere chiariti. “Solo pochi decenni fa, per l’uccisione di un ambasciatore sarebbe scoppiata una guerra” sottolineava pochi giorni fa Salvatore Attanasio, padre di Luca Attanasio, in una conferenza online organizzata da Dark Side – Storia segreta d’Italia.

Nessuno vuole guerre, per carità. Ma nemmeno si può accettare l’oblìo che sembra troppo rapidamente calato su questa vicenda drammatica. Non è dignitoso che l’Italia, paese membro del G7, archivi senza colpo ferire la barbara uccisione di due servitori dello Stato colpiti nello svolgimento del loro dovere.

Delle tre inchieste aperte all’indomani dei fatti, due sono praticamente già chiuse: quella congolese e quella delle Nazioni Unite dopo un mese avevano già tratto le loro inconsistenti conclusioni. Solo la magistratura italiana, con il supporto dei Ros, sta continuando a lavorare, nonostante le difficoltà dovute alla lontananza fisica e culturale dal Nord Kivu, un ginepraio di illegalità e un coacervo di interessi miliardari contesi da mezzo mondo. In una situazione già complicatissima per le indagini, esiste un ulteriore elemento destabilizzante: il Pam (Wfp nell’acronimo inglese) – responsabile dell’organizzazione del viaggio e della sicurezza del convoglio su cui viaggiavano i nostri connazionali – oppone l’immunità diplomatica alla legittima richiesta della magistratura italiana di interrogare le persone del suo staff coinvolte come testimoni. Eh, sì, perché il Pam è un’agenzia delle Nazioni Unite e i suoi dipendenti godono di immunità diplomatica… Ma per quale motivo esercitarla in questo caso? Non è interesse di tutti che la verità emerga?

Ritengo che lo Stato italiano abbia il dovere assoluto di percorrere qualunque via necessaria, fino alle più alte sedi Onu, per chiedere, per pretendere che i funzionari onusiani coinvolti possano e debbano essere ascoltati dai nostri giudici e collaborino a far piena luce sui fatti. Il pm Colaiocco, titolare delle indagini, ha le mani legate. Lo Stato italiano deve affiancare il suo lavoro, sollevando il caso, se necessario, fino a ottenere il permesso di interrogare chi era presente quella mattina sulla Route Nationale 2 e si rifiuta di parlare con gli inquirenti, trincerandosi dietro l’immunità diplomatica.

Non è in ballo solo la legittima richiesta di giustizia di due famiglie, a cui va accostata quella dell’autista Mustapha Milambo. È in gioco la dignità del nostro Paese. E anche di tutti noi, cittadini italiani ma anche consumatori comodamente ignari che dietro i drammi che scuotono da decenni la lontana regione del Kivu si celano interessi multimilionari per lo sfruttamento delle materie prime indispensabili a garantirci l’accesso alle nuove tecnologie.

Siamo tutti responsabili, in prima persona, del dramma congolese e (forse) dell’uccisione di Luca, Vittorio e Mustapha. Solo comprendere i moventi dell’agguato potrà dircelo. Ma per giungere ai moventi, serve individuare i responsabili. Lo Stato italiano non lasci soli gli inquirenti. Noi, cittadini, facciamo sentire il nostro sostegno e la nostra richiesta collettiva di verità e giustizia.

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