In Libano è ormai possibile sondare la crisi economica anche con gli occhi chiusi. Due o tre anni fa, camminando per la capitale Beirut, l’inquinamento acustico nel corso della giornata aumentava ad orari precisi, cadenze regolari, fornendo indirettamente alcuni indizi sul Paese. L’inizio del brusio era il segnale dell’avvio dei generatori di corrente, rumorosi quanto essenziali in un Paese nel quale la rete elettrica nazionale riusciva a coprire solo il 65% del fabbisogno, costringendo la cittadinanza a far fronte ad altre spese per avere la corrente in modo continuo.

I generatori privati, man mano che ci si allontanava dalla capitale, erano sempre più importanti per la vita quotidiana: fino ad ottobre 2019, al di fuori fuori della municipalità di Beirut, il numero di ore di blackout programmato da “coprire” utilizzando i generatori variava dalle otto alle dodici, ad eccezione della poverissima regione settentrionale dell’Akkar e di alcune aree della valle della Beqaa – nella quale sorgono decine di campi profughi informali, in cui diverse persone sono morte di freddo negli ultimi inverni -, dove l’elettricità statale durava al massimo per sei ore giornaliere.

Oggi quell’inquinamento acustico, spia di un generale razionamento dell’elettricità ed emblema delle ore più costose per i libanesi, è diventato permanente. Oppure totalmente assente. Nel Paese dei cedri, non troppo tempo fa un hub finanziario regionale, rifugio sicuro per investimenti esteri, le fonti di energia elettrica sono praticamente esaurite: come era stato annunciato già dallo scorso maggio, i sussidi statali per l’importazione di carburante a prezzi calmierati – cioè con il vecchio cambio tra lira libanese e dollaro, prima della crisi – non possono più essere erogati, avendo un costo di circa 6 miliardi l’anno (con le riserve in valuta estera che non superano i 15 miliardi).

Il primo effetto si è visto ai distributori di benzina, dove da un paio di mesi ci sono code chilometriche, ore ed ore di attesa che sempre più spesso sfociano in scontri talvolta anche armati (lo scorso 2 agosto due morti nel turbolento quartiere di Bab el Tabbeneh a Tripoli), quando i distributori finiscono le scorte giornaliere e sono costretti e chiudere, lasciando decine di persone senza carburante. Il secondo si riflette sui generatori, che pur svolgendo funzioni primarie sono ormai divenuti beni di lusso, poiché il prezzo del carburante necessario a farli funzionare è aumentato di almeno otto volte in due anni. Quando ce n’è a sufficienza.

“La settimana scorsa – racconta Nour, infermiera in un ospedale poco fuori Beirut – mi sono comprata un nuovo cellulare, nonostante i prezzi assurdi, i debiti e nonostante il mio stipendio abbia perso il 90% del suo valore in due anni. Ho usato i miei risparmi che ormai stanno finendo, perché devo aiutare i miei che hanno una pensione che non vale quasi nulla. Ma il cellulare non me lo sarei mai comprata, se non fosse fondamentale, in quello vecchio non funzionava più la torcia”. Da qualche settimana, una funzionalità che quasi tutti danno per scontata in un qualunque telefono, è divenuta di primaria importanza per Nour e i suoi colleghi, che in certe ore devono occuparsi dei pazienti mentre in reparto cala l’oscurità.

Tra lo scorso venerdì e sabato, le due centrali elettriche del Paese – quella di Zahrani e quella di Deir Ammar – hanno smesso di funzionare proprio per mancanza di combustibile, e nonostante l’invio di carburante da parte di Iraq, già dallo scorso settembre, e Iran, la scorsa settimana, anche se non è ancora chiaro in che modo verrà impiegato e se gli Stati Uniti, tra i finanziatori dell’Esercito libanese, tollereranno questo tipo di canale d’approvvigionamento, temendo l’aumento dell’influenza iraniana.

Il Paese non è quindi al buio solo perché l’elettricità è diventata economicamente inaccessibile a gran parte della popolazione, come è stato negli ultimi dieci anni per una parte sempre più ampia dei libanesi che vivevano fuori dalla capitale. Oggi le centrali del Libano non arrivano nemmeno alla soglia minima dei 600 megawatt e il prezzo della benzina, in dollari, è in questo momento il più alto al mondo (circa 4,3 dollari al litro).

Durante la guerra civile la situazione era migliore, non esagero”, commenta Hadi, tassista ed ex miliziano nel conflitto che ha insanguinato il Libano dal 1975 al 1990. “Era sicuramente più pericoloso, più instabile, però riuscivamo a mangiare e le ore di normalità, in cui non si combatteva, potevano anche essere piacevoli. L’economia, anche quella clandestina, girava in qualche modo, mentre oggi è un miracolo se riesco a fare un pieno al mese per il mio taxi. Guadagno al massimo 700mila lire libanesi, il generatore mi costa almeno 800mila per coprire le ore giornaliere. Ho quattro figli, come faccio?”.

La tragedia del Libano sta nella sua inesorabile gradualità, in un declino già strutturale, legato ai fondamentali – mancanza di un vero settore industriale, di un sistema sanitario pubblico efficiente, corruzione endemica, debito pubblico tra i più alti al mondo -, e che ha fatto poi i conti prima con la pandemia e dopo con l’esplosione al porto di Beirut, che tra le altre cose ha distrutto il centro di controllo nazionale della rete elettrica. E non si esaurisce solo nel collasso della rete elettrica.

Dall’ottobre 2019 – mese dell’inizio di una serie di proteste anti-governative che per alcune settimane sembravano preludere ad una nuova epoca, e che invece hanno preceduto il periodo più buio della storia della repubblica – i prezzi del cibo sono aumentati in media del +550%, con una bottiglia d’acqua da mezzo litro che è passata da 500 lire libanesi a 3.000. La lira stessa, agganciata al dollaro dalla Banca centrale in modalità insostenibili, è passata da un cambio di 1:1.500 al cambio 1:21.000.

Lo scorso luglio il Lebanon Crisis Observatory della American University di Beirut ha calcolato che il costo del cibo per una famiglia di cinque persone per un mese ammonta a circa cinque volte il salario minimo. A settembre l’Economic and Social commission for Western Asia delle Nazioni Unite ha parlato per la prima volta di “povertà multidimensionale” – misurata attraverso il mancato accesso ad un certo numero di servizi fondamentali, a prescindere dal reddito effettivamente disponibile -, che in Libano riguarderebbe l’82% della popolazione, mentre il 34% ricade nell’insieme della “povertà estrema e multidimensionale”, percentuale che quasi ricalca quella della povertà relativa, quasi al 40%.

Il simbolo di una simile condizione è Tripoli, seconda città del Paese, con un tasso di disoccupazione già superiore al 50% nel 2019. Tripoli è oggi nelle stesse condizioni di una città uscita dalla guerra, dove il tasso di povertà secondo le Nazioni Unite arriva al 60%. Proprio da Tripoli viene il nuovo primo ministro Najib Mikati, già capo del governo in altre due occasioni, ma soprattutto l’uomo più ricco del Paese, con un patrimonio netto di 2,8 miliardi di dollari. Mikati ha annunciato lo scorso 29 settembre di aver formato il team negoziale che dovrà incontrare la delegazione del Fondo Monetario Internazionale, per delineare quello che sette anni fa sarebbe stato un piano di ripresa, quattro anni fa un piano di aiuti ed oggi un complicato piano di salvataggio di un Paese che va e viene dal baratro.

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