di Riccardo Cristiano*

Quella del 4 agosto 2020 è la data decisiva della storia contemporanea libanese. Forse è anche il solo motivo per cui si è parlato di Libano a livello di informazione mondiale nell’ultimo anno, nonostante il disastro economico che ha distrutto la vita di milioni di libanesi, la cui valuta non serve più a molto. Ma cosa è realmente accaduto quel giorno sembra dover rimanere un segreto di Stato.

Infatti pochi mesi dopo l’esplosione che ha sbriciolato l’intero porto di Beirut, il giudice inquirente Fadi Sawwan fu rimosso: voleva incriminare nomi di assoluto rilievo politico, non credendo che tonnellate e tonnellate di nitrato d’ammonio fossero state sbadatamente dimenticate nel porto commerciale della città dopo la decisione del 2014 di confiscare quel carico, trasportato da una nave russa il cui proprietario era improvvisamente fallito. Ora la storia si ripete.

L’ex ministro dell’interno libanese, Nouhad al-Mashnouq, ha chiesto infatti ai suoi legali di richiedere alla Corte d’Appello la rimozione del magistrato che ha sostituito Sawwan, il giudice Tarek Bitar. Ora la Corte è chiamata a decidere in merito. Anche l’ex ministro dei lavori pubblici, Youssef Fenianos, ha avanzato analoga istanza. Intanto i ministri del governo recentemente sostituito sperano, visto che il magistrato è stato sospeso e con lui tutte le udienze. Loro, i ministri, avevano sempre fatto ricorso alle immunità di legge per non presentarsi davanti al magistrato. In quanto ministri in carica, la legge glielo consente. Ma adesso che non sono più in carica la situazione è cambiata.

È cambiata anche per gli ex ufficiali in pensione che dovevano essere interrogati in queste ore, ma la sospensione del magistrato ha impedito i loro interrogatori. È interessante notare che il primo giudice, Sawwan, fu rimosso su istanza degli stessi ministri che ora chiedono lo stesso provvedimento a carico di Bitar. Se gli ex ministri avessero nuovamente partita vinta si troverebbe un terzo magistrato? È la domanda che si pongono molti media libanesi, con una qualche ragionevolezza. A sperare è anche l’ex primo ministro Mustafa Diab, che appena non è stato più in carica ha preferito partire immediatamente per gli Stati Uniti, ufficialmente per riunirsi all’affetto dei figli. Anche lui doveva comparire davanti al magistrato, ma come i due ministri citati si era avvalso della facoltà di non farlo.

Della misteriosa esplosione del porto di Beirut, simile a un fungo atomico che ha devastato interi quartieri della capitale libanese, si sa poco, nonostante sia passato più di un anno. Fonti ufficiali statunitensi, richieste di assistenza come altre fonti ufficiali, avrebbero appurato, mai smentite, che nel porto di Beirut non c’era tutto il nitrato d’ammonio che fu confiscato e superficialmente custodito nel porto commerciale da allora. Ne era rimasta circa la metà. E il resto? Che uso è stato fatto di una sostanza sottoposta a sequestro?

Il porto di Beirut, come l’aeroporto, è notoriamente sotto il controllo tanto ufficioso quanto strettissimo del Partito di Dio, Hezbollah. Nel 2013 la Siria dovette ammettere di possedere un arsenale chimico, e proprio in quel tempo fu acquistato l’enorme carico di esplosivo poi fatto partire dal Mar Nero, destinazione Madagascar. Ma l’armatore fallì, e non potendo pagare i marinai questi decisero di puntare sul porto di Beirut, dove tutto fu posto sotto sequestro, in un hangar ritenuto inidoneo dagli ufficiali del porto, come indicano molti documenti sequestrati dalla magistratura. Poi l’esplosivo avrebbe cominciato a diminuire di volume, probabilmente nottetempo.

Era l’epoca in cui Hezbollah combatteva, prima dell’intervento russo al fianco di Assad, battaglie decisive per la sopravvivenza del regime siriano, che cominciò proprio nel 2014 a impiegare i famigerati barili bomba, rudimentali barili riempiti di esplosivo e di detriti per colpire indiscriminatamente la popolazione. Cominciò allora un esodo dalla Siria che ha riguardato 6 milioni di siriani fuggiti all’estero. Savaro Ltd, la società commerciale che ha acquistato i prodotti chimici poi giunti a Beirut, ha condiviso un indirizzo londinese con aziende legate a George Haswani, imprenditore siriano sottoposto a sanzioni internazionali dall’Unione europea. Lo afferma la documentarista Firas Hatoum in un documentario prodotto per la stazione televisiva libanese al-Jadeed, sebbene successivamente Haswani abbia negato ogni addebito.

Sono solo alcuni elementi che però indicano come il lavoro degli inquirenti non sarebbe scarso. Ma appare fondata l’impressione che, un anno dopo la distruzione del porto di Beirut, verificatasi un giorno prima della sentenza del Tribunale Internazionale che ha riconosciuto un effettivo di Hezbollah colpevole dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, questa inchiesta sia troppo delicata.

* Vaticanista di RESET, rivista per il dialogo

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