Vi siete mai chiesti perché tutti, o quasi, i soprannomi della nazionali africane sono legati al mondo degli animali? Sgombriamo subito il campo dai pregiudizi: non certo per mancanza di fantasia. La società africana, si sa, ha sempre mantenuto con la natura un rapporto armonioso, quasi intimo, nonostante le recenti ondate di industrializzazione e urbanizzazione selvaggia. Nella concezione dei popoli africani gli animali vengono percepiti come coabitanti di uno stesso ambiente, a cui spesso si attribuiscono virtù mistiche e spirituali, con cui stringere alleanze e vivere in completa armonia. Non deve, quindi, stupire se la maggior parte delle nazionali africane ha guardato al mondo degli animali per pescare il soprannome giusto. Quello più gettonato, naturalmente, è il leone, un archetipo capace di esercitare un grande fascino sull’immaginario umano.

Al re della foresta gli uomini riconoscono virtù sempre molto ricercate e apprezzate come forza, nobiltà, coraggio e regalità, usandolo spesso come similitudine per rappresentare eroi e comandanti militari d’ogni risma. Una figura così, senza apparenti punti deboli, era quello di cui il Camerun aveva bisogno nel 1973 secondo Félix Tonye Mbock, l’allora ministro dello Sport morto lo scorso gennaio. In quel momento c’era voglia di voltare pagina dopo la disastrosa eliminazione dalla Coppa d’Africa casalinga dell’anno precedente. E quale miglior modo di un soprannome per farlo? Così il 31 Ottobre 1972, attraverso un decreto presidenziale, nasceva il mito dei Leoni Indomabili. Sono della Teranga, invece, i leoni del Senegal. Teranga è una delle parole più belle della misteriosa lingua wolof, un’idioma che non contempla un termine per indicare lo “straniero”: si usa per descrivere la tradizionale ospitalità del calorosissimo popolo senegalese. Mentre, qualche chilometro più a nord, possiamo ascoltare il ruggito dei Leoni dell’Atlante, così come sono popolarmente conosciuti i calciatori del Marocco. L’Atlante, d’altronde, ha un elevato potenziale simbolico-identitario: è una delle catene montuose più importante del continente, con la vetta più alta del Nordafrica (Jbel Toubkal, 4167 m), ed è citata anche da Virgilio nell’Eneide, oltre che presente persino sull’effige della monarchia shariffiana.

Non è l’unico caso in cui un riferimento geografico e territoriale partecipa alla costruzione di un soprannome. In Nordafrica la combo animale+elemento territoriale è di gran lunga la più gettonata: in Algeria, ad esempio, possiamo sentir parlare delle Volpi del Deserto. Altre volte, invece, il soprannome è figlio della cultura e del passato di un determinato luogo. Prendiamo ad esempio le Aquile di Cartagine, l’appellativo con cui è conosciuta popolarmente la nazionale tunisina: rievoca nitidamente gli antichi fasti della fiorente civiltà cartaginese, annientata dai Romani durante le guerre puniche. La stessa cosa vale per i Faraoni egiziani, mentre i Mourabitounes (Mauritania), erano una una vecchia dinastia berbera regnante sul Sahara. Le stelle kenyote, invece, devono il loro soprannome alla parola Harambee, un termine bellissimo rubato alla lingua swahili, che letteralmente significa “insieme” e simboleggia la comunione d’intenti di un popolo.

Di stelle, del resto, l’Africa è piena. Le più famose sono quelle “nere” del Ghana. Le Black Stars hanno preso in prestito il simbolo della compagnia di spedizioni di Marcus Garvey, un giamaicano terzomondista e profondamente antischiavista, utilizzando il tradizionale simbolo della lotta panafricanista. Lo ha spiegato molto bene il Dr. William Narteh, uno storico del calcio ghanese, a Ian Hawkey, l’autore di “Feet of Chamaleon”: “La nazione ebraica ha la sua stella di David, le nazioni islamiche hanno la mezzaluna. Nella lotta panafricana abbiamo la stella nera”. Dall’altra parte dell’Africa, quella che guarda l’Atlantico, invece, spopolano gli animali. Oltre al leone, impera l’elefante, altro mammifero dalle infinite potenzialità allegoriche. Un elefante, ad esempio, è stato scelto dalla religione induista per rappresentare il Dio Ganesh, e tradizionalmente simboleggia saggezza, memoria e longevità. Tutte qualità in cui si riconoscono, evidentemente, la Costa d’Avorio e la Guinea, che ne hanno fatto il proprio simbolo: addirittura il vecchio presidente guineano Sékou Touré, primo tifoso dell’Hafia di Conakry, amava farsi chiamare Ba Elephant, papà elefante.

L’autorità di un superpredatore come il leopardo, poi, ha fatto breccia nei cuori dei congolesi, dopo che durante il governo dello swahililofono Laurent-Désiré Kabila la nazionale era conosciuta come Simba. Alla forza, però, si può preferire l’astuzia, come ha dimostrato negli anni ’80 Norbert Imbs, il padre del calcio beninese, scegliendo di associare la nazionale allo scoiattolo, ancora oggi simbolo del Benin nonostante qualcuno abbia provato a mandarlo in pensione più di una volta. Non sono animali di terra, ma anche i volatili sono stati presi in considerazione dalle nazionali africane. Gli uccelli, come aquile e falchi, sono dotati di buona vista e regalano sempre un senso di protezione. Celebri, in questo senso, sono le Super Aquile nigeriane e quelle del Mali o anche le Gru ugandesi. Niente, però, è più identitario dei soprannomi in lingua nativa, un’eco dell’Africa più vera, anche se non sono esattamente quelli più economici. Prendete ad esempio i Bafana Bafana, I Nostri ragazzi in lingua zulu, l’appellativo con cui sono conosciuti i calciatori della nazionale sudafricana: nel 2011 la SAFA, la federazione della Rainbow Nation, è stata costretta a versare una cifra con molti zeri ad un’azienda di abbigliamento, che ne rivendicava il marchio, per assicurarsene la legittima proprietà. Dopotutto, un soprannome non ha prezzo.

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