“Che interesse abbiamo ora in Afghanistan, considerato che al-Qaeda non c’è più? Siamo andati in Afghanistan con l’obiettivo preciso di liberare il Paese da al-Qaeda e catturare Osama bin Laden. L’abbiamo fatto”. Così Joe Biden ha cercato di giustificare la scelta del ritiro da Kabul. Subito dopo le dichiarazioni del presidente, è arrivata però la smentita del Pentagono. Il capo ufficio stampa John Kirby ha dichiarato: “Sappiamo che al-Qaeda è una presenza in Afghanistan, come pure l’Isis, e ne parliamo da diverso tempo”. Il tono della smentita è glaciale e non fa nulla per nascondere il fastidio e l’ormai aperta ostilità dei militari nei confronti delle decisioni dell’amministrazione.

Le dichiarazioni di Biden su al-Qaeda sono un’evidente forzatura e non corrispondono a quello che la sua stessa intelligence, i militari Usa e l’Onu hanno affermato in questi mesi. Proprio le Nazioni Unite, lo scorso giugno, hanno scritto in un rapporto che al-Qaeda “è presente in almeno 15 province, soprattutto nell’est, nel sud e nel sud-est dell’Afghanistan”. Il rapporto fissa in un massimo di 500 persone il numero di militanti islamici presenti nel Paese. Le stime dell’Onu non sono una novità per le forze Usa presenti sul territorio. Già in aprile l’intelligence militare affermava, in un rapporto destinato al Congresso, che “i Talebani continuano a offrire un porto sicuro per i combattenti di al-Qaeda, nonostante continuino a negare la presenza del gruppo terrorista in Afghanistan”. Scott Berrier, il generale a capo della Defense Intelligence Agency, fissava, sempre in aprile, il numero di militanti di al-Qaeda attivi: “Circa 200”.

Non c’è quindi mai stato tra i militari americani alcun dubbio sulla presenza di gruppi terroristici in Afghanistan. I dubbi riguardano piuttosto la loro pericolosità. Lo stesso Berrier ha sostenuto davanti a una commissione del Congresso che al-Qaeda “sarà nel prossimo futuro incapace di condurre attacchi terroristici. Si concentrerà, invece, nel rafforzamento delle proprie relazioni con i Talebani”. Sempre davanti al Congresso, in giugno, il segretario alla difesa di Biden, Lloyd Austin, fissava in “due anni il periodo di tempo che sarà necessario ad al-Qaeda e all’Isis per rigenerarsi in Afghanistan e porre una minaccia reale al territorio degli Stati Uniti e ai nostri alleati”. E ancora a deputati e senatori si è rivolto a giugno il capo delle forze armate americane, il generale Mark Milley, affermando che “i rischi ovviamente aumenteranno” nel caso le forze del governo afgano dovessero crollare o le forze di sicurezza afgane dovessero dissolversi.

Queste sono quindi le considerazioni arrivate in questi mesi dai vertici militari Usa, considerazioni passate attraverso il Congresso e che non possono non essere state recepite da Biden e dai suoi collaboratori. Il fatto che il presidente ora sembri trascurarle e che parli di “missione compiuta in Afghanistan” e di pericolo terrorista sconfitto è ovviamente il segno delle difficoltà e dell’imbarazzo dell’amministrazione nel giustificare un ritiro che si è trasformato in un disastro politico, diplomatico e militare. Le dichiarazioni del presidente hanno però l’effetto di rendere ancora più difficili i rapporti con i militari che hanno subìto la scelta di fissare una data per il ritiro dal Paese (una scelta presa da Donald Trump e confermata da Biden), che hanno inutilmente messo in guardia i vertici dell’amministrazione dalla rapida dissoluzione delle forze di sicurezza afgane e che ora si trovano a dover precisare come l’idea di “missione compiuta” sia uno slogan da vendere a all’opinione pubblica disorientata più che una realtà accertata.

I motivi di contrastro tra autorità civili e militari Usa sono del resto in questo momento molteplici. Si sa per esempio come i militari americani non siano per nulla soddisfatti del modo in cui il Dipartimento di Stato sta gestendo la questione dei visti per interpreti, traduttori e per tutti quegli afgani che in questi anni hanno collaborato con le autorità americane. “Li abbiamo messi in guardia per mesi, per mesi, spiegando che la situazione era urgente”, ha detto in condizione di anonimato una fonte militare ad Afp. “Non sono solo arrabbiato, sono frustrato”, ha spiegato un altro militare. L’accusa al Dipartimento di Stato è di aver atteso mesi per mettere in piedi una struttura di emergenza per organizzare la partenza di figure professionali che sono state fondamentali negli anni dell’occupazione.

Un’altra questione che sta generando frizioni è quella dei tempi del ritiro. I militari americani hanno chiesto per giorni a Biden una decisione sul possibile allungamento dei tempi del ritiro oltre il 31 agosto. L’esercito ha infatti bisogno di “qualche giorno in più” per portare fuori dal Paese i civili che necessitano assistenza, prima di iniziare il ritiro dei 5.800 soldati ancora sul terreno. Dal Dipartimento di Stato sono arrivate richieste in senso opposto: nessun allungamento dei tempi che comporterebbe gravi rischi per la sicurezza e possibili atti ostili da parte dei Talebani. L’attendismo e l’indecisione di Biden, ancora una volta, hanno provocato insofferenza e irritazione negli ambienti militari.

Quanto avvenuto in queste settimane deve essere peraltro inserito in una questione più generale – quella dei rapporti tra autorità civili e politiche – che dura ormai da anni e che preesiste alla stessa amministrazione Biden. L’attuale presidente è stato aspramente criticato da rappresentanti del suo partito per aver scelto un generale in pensione, Lloyd J. Austin III, come segretario alla Difesa. Tradizionalmente, il ruolo di capo delle forze militari è andato negli Stati Uniti a un civile, per garantire l’equilibrio dei poteri e il controllo della politica sull’esercito. Donald Trump è venuto meno a questa regola, nominando un generale, Jim Mattis, a capo del Pentagono. In realtà, Trump ha riempito la sua amministrazioni di ex militari, nominandone, oltre che al Pentagono, alla direzione dello Homeland Security, della National Security e come chief of staff della Casa Bianca. La “politicizzazione” dell’esercito Usa, sotto Trump, ha raggiunto i suoi massimi livelli quando il presidente ha chiesto di usare i militari per reprimere le manifestazioni di protesta anti-razzista. Un coinvolgimento al quale le stesse autorità militari hanno risposto negativamente, riaffermando la “apoliticità” dell’esercito Usa.

Nonostante le critiche e l’allarme dei democratici, la presenza di militari in ruoli chiave dell’amministrazione è però continuata anche sotto Biden. L’attuale presidente non si è limitato a nominare un generale in pensione come proprio segretario alla Difesa. Quattro tra generali e ammiragli, oltre a un marine, erano presenti nel team di transizione presidenziale di Biden. La rottura dei tradizionali equilibri tra civili e militari nell’amministrazione Usa – un processo che appunto dura da anni – ha generato conflitti e rivalità, soprattutto all’interno del Dipartimento di Stato, che non ha gradito la sempre più marcata trasformazione delle autorità militari in centri non più puramente esecutivi ma decisionali delle linee di politica estera statunitense. Il conflitto si è manifestato in tutta la sua drammaticità nei mesi finali della presenza americana in Afghanistan: con le differenti valutazioni sulla necessità di fissare la data del ritiro (data che Biden e il Dipartimento di Stato hanno fortissimamente voluto), con gli allarmi del Pentagono sulla debolezza delle forze afgane che il Dipartimento di Stato ha minimizzato, con la successiva confusione su operazioni di ritiro e visti. Nel mezzo al conflitto si è trovato Joe Biden che in questa occasione ha però scelto di ridurre ruolo e allarmi dell’esercito, come gli chiedeva il Dipartimento di Stato e in accordo a quanto lo stesso Biden ha sempre pensato. Già nel 2009 (l’episodio è raccontato in Obama’s Wars di Bob Woodward) l’allora vice presidente si scontrava con i generali sulla presenza militare Usa e, di fronte a Obama, urlava: “Non siamo capaci di pensare ai nostri obiettivi strategici in Afghanistan!”.

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