Quella frase era stata ripetuta così tante volte che si era trasformata in credenza popolare. Sul prato dello stadio Ghazi era stato versato talmente tanto sangue che l’erba non sarebbe ricresciuta. Mai più. L’appuntamento era fissato ogni venerdì pomeriggio. I cittadini di Kabul si radunavano su quegli spalti. A migliaia. Così voleva il mullah Omar. E quell’invito si era trasformato in obbligo etico. Lo spettacolo era molto diverso da quello che avevano osservato fino al 1996. Niente dribbling. Niente sovrapposizioni. Niente gol. Sangue scarlatto che si rapprendeva attorno ai ciuffi di erba verde. Lo stadio Ghazi era diventato la casa delle lapidazioni collettive, delle esecuzioni del regime.

Ogni tanto qualche fotogramma veniva catturato dalla stampa internazionale. In uno scatto si vede una donna coperta dal burqa inginocchiata al limite dell’area di rigore. La punta di un Kalashnikov preme contro la sua nuca. Tutto si consuma in una frazione di secondo. Un talebano sfiora il grilletto, la fiammata colora di rosso la canna del fucile, il corpo della donna si trasforma in cadavere. Giusto il tempo di annunciare che “giustizia” è stata fatta. Poi si passa alla prossima sentenza. I racconti dei presenti sono ancora più agghiaccianti. Alle adultere è riservato un trattamento diverso. Vengono seppellite nella sabbia fino al petto. E poi vengono lapidate. A scagliare la prima pietra sono i mariti. Spesso scelgono quella più pesante. E la lanciano via con tutta la forza che hanno in corpo. L’esecuzione dura in media una mezz’ora. Perché i sassi vengono scelti con attenzione. Non devono provocare una morte istantanea, ma rompere, fratturare, dilaniare. Un orrore che si ripete ciclicamente. Anche perché per rientrare nella categoria delle fedifraghe basta che una donna chieda un’indicazione a un passante.

Il prezzo più alto al regime talebano lo hanno pagato proprio le donne. I loro diritti sono stati ridotti all’osso da un’incessante opera di sottrazione. Fino a quando più o meno qualsiasi cosa era diventata proibita. Vietato utilizzare cosmetici, vietato indossare gioielli, vietato colorare le unghie con lo smalto, vietato lasciare scoperte le caviglie, vietato lavare vestiti in luoghi pubblici, vietato frequentare le scuole e le università, ma anche lavorare fuori dalle mura della propria casa. Per poter uscire dovevano essere accompagnate da un parente stretto (padre, fratello o marito), dovevano indossare il burqa, dovevano evitare i colori sgargianti perché potevano richiamare la passione sessuale. Non potevano parlare liberamente con altri uomini, prendere un taxi da sole, apparire in televisione, andare in bicicletta o in moto, indossare scarpe col tacco. Dovevano moderare i decibel delle loro risate perché nessun estraneo poteva ascoltare la loro voce.

Figurarsi se potevano fare sport. I Talebani tolleravano soltanto calcio e boxe. Rigorosamente al maschile. Solo che i pugili afghani non potevano partecipare agli incontri internazionali. Il regime pretendeva barbe lunghe e folte. La Federazione sovranazionale ammetteva incontri solo fra atleti perfettamente rasati. Ogni disciplina è arrivata al collasso. Nel dicembre 2001, dopo la caduta del regime, Said Mahmood Zia, presidente del Comitato Olimpico Nazionale, ha cercato di uscire dall’isolamento. Ha chiesto aiuto alle potenze sportive mondiali. Perché l’Afghanistan aveva bisogno praticamente di tutto. Pensare all’attrezzatura era quasi un lusso quando gli atleti non avevano luce, acqua e cibo a sufficienza per potersi allenare. Il presidente ha parlato di circa mezzo milione di sportivi sparsi lungo tutto il territorio nazionale. Qualcuno gli domanda se in quella stima erano ricomprese le donne: “Durante il governo taleb – dice alla Rosea – per loro era impossibile fare qualsiasi cosa: adesso non sarà più così. Vogliamo che anche le ragazzine abbiano la possibilità di fare sport. Per questo verranno costruiti, per esempio, dei campi da basket nei quali le donne potranno fare attività”. Un’eresia che diventa grande opportunità.

La prima luce, anche se fioca, si era vista qualche mese prima. Quarantotto atlete afghane erano volate a Teheran per partecipare e ai Giochi Islamici Femminili. Venivano tutte dall’area del Paese sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, dove i divieti imposti alle donne erano meno asfissianti. La rivoluzione si era messa in moto lentamente. Molto lentamente. Il pallone inizia a rimbalzare di nuovo nel 2002. Il 14 febbraio una squadra avanza con molta attenzione sul prato alopecico del Ghazi Stadium. Sono uomini che avanzano accanto a cani. Sono sminatori. Dissotterrano ordigni, fanno brillare incubi. I vetri dell’impianto sono ancora in frantumi, i bordi del campo sono ancora inondati dai bossoli. Ma a nessuno importa.

La prima partita assomiglia a un film americano. Da una parte c’è una selezione di soldati (britannici, francesi, italiani, olandesi, tedeschi, spagnoli e danesi) allenata dall’ex mister del Tottenham Gary Mannutt. Dall’altra c’è una rappresentativa degli afghani messa insieme da Lawrie McMenemy, ex ct dei tre leoni e manager del Southampton. È una partita che non ha molto da offrire dal punto di vista della tecnica. Eppure richiama allo stadio circa 30mila persone. Perché niente racconta il ritorno alla normalità come l’organizzazione di una partita di calcio. A marzo si aggiunge un altro tassello. I comandanti del continente italiano e spagnolo dell’Isaf organizzano due partite fra quattro squadre di giovani afghani. Sono tutti uomini. E per l’occasione indossano completi ufficiali donati da Inter, Barcellona, Real Zaragoza e Atletico Madrid. L’equilibrio è ancora incerto. Troppo.

Nel 2004 la Nazionale afghana sale su un aereo e atterra a Verona. Deve giocare una partita contro l’Hellas. Un po’ amichevole. Un po’ raccolta fondi. Alla vigilia del match nove membri della rappresentativa fanno perdere le proprie tracce. Sono evaporati, puff, svaniti. Secondo qualcuno sono saliti sul treno. E hanno raggiunto Olanda e Germania. Il movimento calcistico maschile è un nano con le caviglie di argilla. Quello femminile, invece, è ancora più problematico. Il nuovo presidente del Comitato Olimpico, l’ ex lottatore Moahammed Anwar Jigdale, racconta una verità piuttosto crudele. “Da noi le donne praticano lo sport. Basket, pallavolo, taekwondo. È ancora difficile praticarlo davanti agli uomini: c’è timidezza, mentalmente ancora non siamo, non sono pronte perché questi anni sono stati tremendi“.

Per creare una storia comune servono storie individuali. Coraggiose. Ostinate. Paradigmatiche. È necessario che qualcuno dia l’esempio, salti lo steccato. A cambiare la storia del calcio femminile in Afghanistan ci pensa una ragazzina di 14 anni. Si chiama Khalida Popal e dopo la scuola inizia a giocare da sola. E in segreto. La voce arriva alle orecchie giuste. Un giorno un’altra ragazza suona al suo campanello. Vuole provare a calciare anche lei. Poco a poco si forma un gruppetto. Il regime è appena caduto, ma i pregiudizi sono ancora molto radicati. Le ragazze vengono insultate, vengono minacciate, vengono aggredite. Ma vanno avanti. Nel 2007 formano la prima squadra femminile dell’Afghanistan. La loro storia diventa una calamita per tutte le coetanee che sono state costrette a reprimere il loro interesse per il pallone. Popal e le sue compagne parlano con la Federcalcio. E ottengono qualcosa di incredibile. Nasce la lega calcistica femminile dell’Afghanistan. La Fifa mette a disposizione fondi per far sopravvivere quello che ancora non può essere considerato un vero e proprio movimento. Vengono creati dei club. Vengono organizzati tornei. Tutto è ancora molto rudimentale. Tutto è ancora estremamente fragile.

A dicembre 2008 arriva qualcosa di molto simile a una svolta. La Nazionale femminile afghana gioca il suo primo match internazionale, in Pakistan. Due anni più tardi le ragazze si allenano in un impianto sotto il controllo della Nato. Provano passaggi, tiri in porta, triangolazioni. Poi alcuni militari ordinano di farsi da parte. Un elicottero dell’organizzazione internazionale deve atterrare nel centro nel campo. “Odio gli elicotteri, ma non esiste un altro posto dove poter giocare: verremmo attaccate“, dice Popal al New York Times. E ancora: “Ovunque andiamo ci sentiamo dire: ‘Perché giocate a calcio? Non è uno sport per ragazze‘”. Una certa visione della donna fa ancora molta presa sugli afghani. E per estirparla servirà molto tempo. “Lo sport non dovrebbe essere una faccenda per soli uomini. Il problema è che l’ ottantacinque percento della popolazione del Paese è analfabeta, e non è in grado di capire”, dice Wahidullah Wahidi, l’allenatore della Nazionale.

Per molti Khalida Popal è diventata un simbolo. Non gioca solo nella Nazionale. È anche un membro della Federcalcio. In qualche modo vuol dire fare politica, essere parte attiva di un processo di cambiamento, di emancipazione. Ed è troppo. La ragazza viene minacciata. Continuamente. Le parole toccano sia lei che i suoi familiari. Così decide di dire basta, di andare via. Prima in India. Poi in Danimarca. “Ho dovuto abbandonare la mia squadra, il mio Paese – ha raccontato un anno fa a Il Sole 24 ore – La mia identità come giocatrice e come capitano è stata violata. Me l’hanno rubata e questo ha avuto un grave impatto sulla mia vita per tanto tempo”. Inizia un’altra vita parallela al calcio. Popal frequenta la Business Academy of Denmark e si laurea in International marketing management. Ma senza mai smettere di lottare per i diritti delle donne afghane.

Pian piano il calcio comincia ad avere una valenza sociale, a ritagliarsi uno spazio sempre più importante. Nel 2015 si gioca il primo vero campionato maschile. È composto da 8 squadre che sono state create artificialmente. Perché un reality show ha permesso di selezionare i calciatori su base nazionale. A vincere è stato il Toofan Harirod, di Herat, che si è aggiudicato anche un premio di 15mila dollari. L’illusione è abbagliante: conquistare diritti civili a suon di gol. Nel dicembre 2015 si gioca un’altra partita importante. Le donne del Contingente Militare Italiano in Afghanistan affrontano la squadra femminile del Bastan Football Club in un incontro che ha ha un sottotitolo piuttosto chiaro: “A match for Women Rights – Afghanistan and Italy, together we win”. A imporsi sono le ragazze del Bastan.

È una storia nella storia. Quella del calcio femminile afghano ha tutti i connotati della favola. Ma invece nasconde qualcosa di sordido. Nel 2018 la Nazionale femminile si riprende le copertine dei giornali di tutto il mondo. Ma le imprese sportive non c’entrano nulla. Il Paese che aveva cancellato l’uso del burqa ora si ritrova a fare i conti con una storia di violenze sessuali. Tutto inizia in un ritiro in Giordania. Le calciatrici che giocano all’estero si mescolano con quelle che sono ancora a Kabul. E capiscono che c’è qualcosa di strano. Le colleghe che sono restate in patria ci mettono sei mesi per decidere di raccontare le loro storie. Sono diverse, ma tutte ruotano intorno ad abusi sessuali da parte dei vertici della Federazione. Diverse calciatrici hanno detto di essere state costrette a concedere il proprio corpo per giocare in Nazionale. La frase che si sentivano ripetere era sempre la stessa: “Fammi vedere quanto sei bella perché solo le ragazze splendide faranno parte della squadra”.

L’ufficio del Presidente della Federazione Keramuddin Karim a Kabul è provvisto di letto e di serrature a riconoscimento palmare. Una volta entrate le atlete potevano uscire solo grazie al presidente. La prima a denunciare la situazione è stata Popal. Ma senza grandi risultati. Nove giocatrici sono state accusate di essere lesbiche. E sono state escluse. Alle altre è stato proposto di giocare gratis. Alla fine le accuse delle atlete afghane sono state raccolte dalla stampa internazionale. E sono diventate choc nazionale. Il presidente della Federcalcio femminile Keramuddin Karim è stato radiato a vita.

Uno scandalo che però non ha annacquato il valore del calcio come strumento di emancipazione delle donne. Un lavoro che qualcuno sta portando avanti anche fuori dai confini nazionali. Proprio come sta facendo Rozma Ghafouri, una donna di trent’anni che è scappata dall’Afghanistan ancora bambina. I suoi ricordi sono quelli di un’infanzia negata. A sei anni non andava a scuola. Voleva giocare a calcio ma non le era permesso. Doveva lavorare nei campi. Con la puzza dei pesticidi che le entrava nelle narici. Con il sole che picchiava forte contro la sua testa. Un ricordo che ha segnato tutto il resto della sua esistenza. Così Rozma ha deciso di mettersi al servizio dei bambini. In Iran si prodiga affinché i giovani rifugiati afghani tra gli 11 e i 15 anni senza documenti smettano di lavorare e tornino sui banchi di scuola. Ogni anno aiuta circa 400 giovani, nel tentativo di ricostruire il loro futuro. Il calcio è lo strumento con cui toccare i loro cuori. Soprattutto quelli delle ragazzine. La donna le fa giocare nella sua squadra. Le spiega i movimenti, ne loda i progressi. “Lo sport è il modo migliore che ho trovato per aiutare i bambini in una situazione di vulnerabilità ad aprirsi con me – ha raccontato al sito dell’Unhcr, che le ha conferito il premio Premio Nansen per i Rifugiati 2020 – Dopo ogni allenamento parlo con loro di un argomento qualunque finché non si sentono a proprio agio e mi confidano i problemi che affrontano in famiglia”.

È un lavoro lunghissimo, una strada tutta in salita. E con il ritorno dei Talebani in molti hanno paura che tutto possa essere vanificato, che il calcio femminile, e lo sport in generale, possa perdere il suo ruolo di strumento di affrancamento. Secondo molti analisti i Talebani, che hanno dovuto vivere all’estero, sarebbero più aperti di vedute rispetto a vent’anni fa. Secondo altri potrebbero evitare posizioni estreme, almeno in un primo momento. Eppure la paura è sempre la stessa: sprofondare in un nuovo medioevo.

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