Alicante, Castellón, Cultural Leonesa, Universidad Las Palmas, Poli Ejido, Salamanca: tra il 2011 e il 2014 sono fallite tutte. Il salary cap della Liga spagnola è nato in questo contesto, approvato nel 2013 (di concerto con il Csd – Consejo Superior de Deportes – il massimo organo sportivo a livello nazionale) dai medesimi club che in seguito, quando incappati nelle sanzioni previste, avrebbero accusato il suo fautore, Javier Tebas Medrano, di averlo imposto, anzi, estorto. Solo che quando questo “límite de coste de plantilla deportiva (Lcpd)”, ovvero limite di costo della rosa sportiva, viene infranto dal Getafe di turno non interessa a nessuno, ma se lo stesso impedisce al Barcellona di offrire un nuovo contratto a Lionel Messi, o tesserarlo nuovamente (dal 30 giugno l’argentino era un parametro zero), scoppia il caos. Di fatto, questa parola è proprio ciò che la gestione Josep Bartomeu ha lasciato in eredità al Barcellona: da Més que un club a Més que un caos.

Il tetto salariale della Liga prevede che retribuzioni (salariali e per cessione diritti di immagine), ammortamenti, indennizzi e quote di previdenza sociale non superino una determinata percentuale in relazione al budget a disposizione, determinata dalla Liga e approvata da un’Apposita autorità di convalida. In era pre-Covid le big sono sempre riuscite, talvolta aiutandosi con un po’ di finanza creativa, a mantenersi sotto la soglia. Ma per un club amministrato come fatto da Bartomeu nel suo regno in blaugrana, la pandemia ha rappresentato lo smottamento che ha fatto crollare tutto il castello. Nel 2019-2020 i blaugrana hanno presentato un budget che prevedeva, solo per stipendi di giocatori e staff, spese per 507 milioni di euro. Ma per quell’anno il proprio limite salariale era di 671 milioni, crollato però a 382.7 nella stagione successiva a causa del drastico calo delle entrate e di una situazione finanziaria in palese sofferenza.

La pandemia ha accelerato un processo di esplosione dei costi già in atto da tempo e che aveva trasformato il Barcellona in un paradosso finanziario, ovvero il club con i più alti ricavi al mondo (841 milioni nel 18-19) costretto a comprare i giocatori a credito (Coutinho, Frenkie de Jong), attraverso prestiti (Griezmann) oppure finanziandosi con il mercato quasi fosse un Levante qualsiasi. Del resto, nel 2019-20 le uscite dei blaugrana si attestavano complessivamente sul miliardo di euro. Il Real Madrid, per far un esempio con la rivale per eccellenza, ha invece saputo assorbire meglio la batosta Covid-19, migliorando dalla fine del 2020 al marzo 2021 le proprie condizioni economiche e portando il suo limite salariale da 468.5 milioni a 473.

Messi rappresentava il 17% dell’intero carico salariale del Barcellona. A causa delle entrate prosciugate dalla pandemia, il 110% del fatturato veniva fagocitato dagli stipendi. Vale a dire che, per ogni euro guadagnato, la società spendeva un euro e dieci in stipendi. Ma anche senza Messi la percentuale scende al 95%, rimanendo altissima. Nemmeno giocando gratis per i prossimi anni (perché poi Messi avrebbe dovuto farlo qualcuno dovrebbe anche prendersi la briga di spiegarlo, ma questo è un altro discorso) l’argentino sarebbe potuto rimanere a Barcellona. Questo divorzio inaspettato è tutt’altro che un fulmine a ciel sereno, dal momento che le avvisaglie della china pericolosa imboccata dal Barcellona erano visibili da tempo. Il 29 giugno 2020 i blaugrana annunciarono l’ingaggio di Miralem Pjanic, ma il suo effettivo inserimento nella rosa avvenne solo a metà settembre dopo l’ufficializzazione delle cessioni di Ivan Rakitic, Luis Suarez e Arturo Vidal. A fine agosto saltò l’arrivo di Memphis Depay dal Lione perché Ousmane Dembélé (uno dei simboli della scellerata gestione tecnica del Barcellona di Bartomeu per costo inversamente proporzionale al rendimento) rifiutò la cessione al Manchester United mantenendo il club vicino al limite salariale. Depay è arrivato questa estate a parametro zero, così come Sergio Aguero e Eric Garcia, ma l’assenza di euro spesi per il cartellino non deve ingannare: gli stipendi dei primi due sono da top player e il carico salariale non può che risentirne.

Con una perdita di 487 milioni di euro registrata in un solo anno, il Barcellona è un club tecnicamente fallito. Se l’Elche di turno avesse presentato percentuali simili, proporzionalmente al proprio budget e alle proprie dimensioni, sarebbe già stato spedito in Segunda Division B (terza serie) senza problemi. Perché l’Elche, come il Getafe, interessa solo ai propri tifosi, come un Chievo qualunque. E lo stesso discorso vale per un club storico, blasonato ma proveniente da una paese ai margini del calcio-business come i Rangers Glasgow. Il Barcellona non può fare la loro fine, perché nel calcio un modo per salvare i grandi nomi lo si è sempre trovato, fosse uno spalma-debiti di berlusconiana memoria o un finanziamento a fondo perduto sulla linea Abu Dhabi-Manchester per gabbare il Fair Play Finanziario.

Ma è stata proprio questa presunzione nel sentirsi intoccabile che ha portato Messi a Parigi. In casa blaugrana si pensava a un accordo con la Liga all’insegna della flessibilità, con Messi pronto a firmare un quinquennale al 50% dello stipendio sulla cifra del salario netto, con la somma spalmata fino al 2026 per 100 milioni di euro e lieto fine per tutti, incluso il campionato spagnolo che avrebbe continuato a tenere in casa il suo giocatore più rappresentativo e remunerativo. Tebas però non ha ceduto e certamente l’adesione del Barcellona alla Superlega non lo ha lasciato a macerare nel dubbio. Oggi più che mai risuonano attuali le dichiarazioni fatte da Jorge Valdano a El País nel luglio 2020: “Nonostante siamo lontani a livello ideologico, credo che per il calcio spagnolo Tebas abbia fatto più di tutti i suoi critici messi assieme. Dal suo arrivo, La Liga è diventata un campionato più ricco, più democratico nella distribuzione delle risorse, più rigoroso nel rispetto dei contratti e più rispettoso nei confronti della propria identità”.

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