Ogni atleta ha un suo universo parallelo. Un luogo indefinito e sfumato dove ci si rifugia per accarezzare un’idea, per pettinare un rimpianto. Fino a eternarlo. È la dimensione del ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Per lo più per fattori esterni. Più raramente per proprie scelte. In questa dimensione ha vissuto a lungo Eugenio Monti, la leggenda del bob nazionale che ha passato una vita intera a convincere gli altri che si può essere giganti pur avendo un corpo minuto. Di curve, nella sua carriera (e nella sua esistenza), ce ne sono state tante. Anzi, troppe. All’inizio degli anni Cinquanta il nome di Monti viene ripetuto spesso. Dagli addetti ai lavori. Dai tifosi. Perché a 23 anni quel ragazzo di Dobbiaco è prospetto più interessante dello sci italiano. Monti fila via veloce. Sembra imprendibile. Tanto per gli avversari che per i guai. Gianni Brera lo osserva con curiosità. E ne resta folgorato. Lo soprannomina il Rosso Volante. Per il colore dei suoi capelli. E per le emozioni che suscita in chi lo guarda.

Un giorno come tanti Eugenio scivola durante un allenamento. Il dolore addenta il suo ginocchio e allarga la sua bocca in un urlo straziante. La diagnosi è impietosa: rottura dei legamenti. Vuol dire sottoporsi a una operazione. E a una faticosa riabilitazione. Monti stringe i denti e va avanti. Torna ad allenarsi. Tutto sembra essersi risolto. Ma non è così. Ha un nuovo incidente. Il ginocchio va ancora in pezzi. La sua carriera agonistica finisce lì. Almeno nello sci. Il richiamo della velocità è troppo forte. Serve un piano b. Nel senso letterale. Monti stacca gli sci e inizia a spingere forte il suo bob. Una disciplina che lo trasforma in icona.

Alle Olimpiadi invernali di Cortina del 1956 vince due medaglie d’argento. Le converte in oro poco dopo: in 8 anni si porta a casa altrettante medaglie titoli mondiali fra bob a due e bob a quattro. I Giochi di Innsbruck del 1964 sembrano una storia con un finale già scritto. Il 31 gennaio Monti e Siorpaes lottano contro i connazionali Zardini e Bonagura e contro l’equipaggio formato da Nash e Dixon. La competizione è spietata. Dopo due discese Monti è terzo, i britannici primi. Non è il risultato che sperava. Ma è il risultato che lui stesso ha contribuito a creare. Perché in quel pomeriggio Monti non è stato il fabbro della sua fortuna. Ma anche di quella degli altri. Durante la prima manche l’asse posteriore dello slittino degli inglesi si è spezzato. Non avrebbero più potuto continuare. Monti se ne rende conto immediatamente. Non dice niente. Invia agli avversari un asse di ricambio. Gli inglesi ringraziano e volano al primo posto.

“Grazie a Monti siamo in testa – dice Nash a fine gara – il gesto leale di Monti è la cortesia più grande che io abbia mai ricevuto come sportivo in vita mia”. Le gerarchie non cambieranno più. Monti chiude terzo. Nash primo. La medaglia dell’italiano è la meno pregiata. Almeno in apparenza. Perché il Rosso Volante diventa il primo atleta a vincere la medaglia De Coubertin per il Vero Spirito Sportivo. Il rimpianto accompagna Eugenio fino a Grenoble 1968. È lì che Monti chiude la sua parabola. Oro nel bob a due. E nel bob a quattro. Un uomo che diventa leggenda, una storia che sopravvive ai decenni. Anche a un epilogo amaro. L’ultimo rettilineo della vita di Monti è doloroso. Sofferenza e malattia si mescolano insieme. Il 1° dicembre del 2003 decide che ne ha abbastanza. Scrive una lettera, prende una pistola, mira alla testa. La corsa in ospedale è inutile. Il Rosso Volante si spegne il giorno successivo. La sua leggenda no. Quella vivrà ancora a lungo.

Articolo Precedente

Olimpiadi di Tokyo, lo spettacolo dei fuochi d’artificio segna la fine dei Giochi in Giappone – Video

next
Articolo Successivo

La morte di Enemark, i 100 metri di Johnson, la vicenda Schwazer: i casi di doping che hanno segnato la storia delle Olimpiadi

next