Ci sono mille motivi per cui essere felici del trionfo olimpico di Marcell Jacobs nei 100 metri. Uno di questi è che la massa, il popolo, il “paese reale” si è accorto di Franco Bragagna. Sessantadue anni, padovano di nascita ma bolzanino da sempre, è la voce della Rai dell’atletica, della canoa, dello sci di fondo e delle cerimonie di apertura dei Giochi Olimpici. Chi segue gli sport succitati, che possono essere considerati minori solo da una nazione di calciofili integralisti, non è certo stupito dell’esaltazione delle ultime ore di Bragagna e del suo stile giornalistico. È dai tempi di Manuela Di Centa e Stefania Belmondo, Silvio Fauner e Pietro Piller-Cottrer, Fiona May e Fabrizio Mori, che molti di noi si fanno incantare da quella voce impostata, dalla dizione perfetta, dalle pronunce impeccabili in qualsiasi lingua, dai continui riferimenti storici e geopolitici nel raccontare le vicende sportive e umane degli eroi olimpici.

Per chi non ha finito le scuole dell’obbligo (o per i tanti analfabeti funzionali che infestano questo Paese) una telecronaca di Franco Bragagna è un compendio di nozioni e curiosità, di riferimenti culturali (alti e bassi, colti e pop) che condiscono le gesta sportive con una spruzzata di sapidissima umana curiosità, voglia di spingersi oltre le conoscenze di base di cui troppo spesso ci accontentiamo e di inserire lo sport all’interno di un quadro più ampio, per capire come si è arrivati fin lì, fino a quei pochi secondi del gesto atletico.

Franco Bragagna ha qualcosa dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Dove i bruti, duole ammetterlo, potrebbero essere identificati nei tifosi di calcio, pigri osservatori del mero gesto sportivo e poco interessati al contorno, alla cornice, alla big picture. Chi segue il calcio si accontenta del serrato tiki taka lessicale che fa da voce guida a quello calcistico, con un veloce elenco di cognomi di giocatori che si scambiano la palla. Chi segue l’atletica o lo sci di fondo, almeno in Italia, sa che c’è altro, molto altro. Sa che il racconto sportivo può e deve essere anche racconto culturale (nel senso più ampio del termine), tratteggio elegante e colto del contesto. Viviamo in un’epoca nemica del contesto, utilizziamo mezzi di comunicazione che il contesto lo ignorano completamente, che isolano un momento e lo ergono a paradigma di dogmi e verità assolute (che ovviamente sono quasi sempre menzogne in malafede). Ecco, Bragagna fa da sempre l’esatto contrario. Approfondisce, scava, draga sotto la superficie e porta a galla tutto quello che c’è, offrendolo al telespettatore.

Il racconto di Bragagna è colto senza diventare snob, è ricercato ma mai incomprensibile. Anche quando racconta le alterne vicende geopolitiche di questa o quella ex repubblica sovietica o spiega gli equilibri dell’atletica leggera chiamando in causa il passato coloniale, Bragagna mantiene uno stile fruibile, efficace, “largo”. È il Piero Angela del tartan, l’Omero degli eroi in tutina attillata che perpetuano il mito di Olimpia.

Negli ultimi anni qualcun altro ha seguito lo stesso cammino e ha raggiunto una popolarità ampia e trasversale. È il caso di Federico Buffa, che da Sky è passato ai teatri e agli speciali televisivi. Ma c’è una differenza abissale tra il pur bravo Buffa e Franco Bragagna. Intanto, Bragagna era Federico Buffa before it was cool. E poi nello stile del giornalista Rai c’è più verità, più racconto giornalistico e meno drammatizzazione teatrale. Bragagna è un onesto impiegato statale che non ha mai inseguito il divismo. Ha semplicemente fatto il suo mestiere dalla periferica sede Rai di Bolzano. Ha girato mezzo mondo non solo per i giochi olimpici ma anche per i meeting minori, le gare di sci di fondo in mezzo ai boschi del Nord Europa, quelle di canoa su fiumiciattoli sconosciuti e senza il cono di luce della prima serata o dell’appuntamento olimpico.

Franco Bragagna è Franco Bragagna perché gli piace e forse può permettersi di esserlo proprio perché non si occupa di calcio ma di sport che per gli italiani contano qualcosa solo una volta ogni 4 anni (o 5, come in questo ultima pandemica occasione). Raccontando quello che vede spesso per pochi intimi, magari su RaiSport (che ha il numero di spettatori più o meno del saggio delle medie di un qualsiasi ragazzino italiano), Bragagna può permettersi di dar fondo al proprio bagaglio culturale, una caratteristica che spesso il grande pubblico non apprezza, forse perché mette evidenzia una certa dose di ignoranza crassa che alberga nel pigro sistema digerente della nazione.

E allora, come spiegare l’esaltazione delle ultime ore dello stile Bragagna? Viviamo in un momento storico particolare che ha un bisogno disperato di narrazione epica, di un Omero a cinque cerchi che ci esalti a tal punto da dimenticare, fosse solo per poche ore, lo scenario tragico in cui ci muoviamo. Di Bragagna, dunque, il grande pubblico olimpico apprezza l’enfasi e il trasporto emotivo, mica i riferimenti culturali. Di quelli, forse, se ne sono accorti in pochi. Eppure ci sono, in grande numero, in ogni frase pronunciata dal giornalista Rai. E visto che abbiamo fatto riferimento agli eroi epici e a Omero, potremmo dire che le medaglie olimpiche sono meravigliosi cavalli di Troia dentro i quali l’eroe dal multiforme ingegno, con una faccia da placido impiegato delle poste e una testa da vulcanico e colto intellettuale, ha nascosto quintali di riferimenti culturali, di nozioni, di rimandi alti e bassi che possono far solo bene a chi lo ascolta.

Certo, ora il rischio è che Bragagna torni in naftalina per i prossimi tre anni e venga esaltato pubblicamente solo in occasione di Parigi 2024. Anche perché il rapporto degli italiani con gli sport che non sono il calcio somiglia molto a quello con gli amici che vediamo una volta ogni morte di papa e con cui magari passiamo anche serate esaltanti, salvo poi salutarci con la solita frase: “Non perdiamoci di vista! Non facciamo che ci rivediamo tra chissà quanti anni, eh!”. Cosa che puntualmente accade, ovviamente, esattamente come con gli sport cosiddetti minori e con i grandi giornalisti che se ne occupano da una vita.

Franco Bragagna è una delle eccellenze massime del giornalismo sportivo italiano. E non lo è diventato grazie all’indimenticabile impresa di Marcell Jacobs o di Gimbo Tamberi. Lo è da trent’anni, anche se molti di voi non se ne erano accorti, distratti dagli urlatori del calcio e dalla loro narrazione sguaiata, basica, primitiva, pigra e senza curiosità. Cerchiamo di ricordarcelo anche nei prossimi mesi e anni, prima di rivederci a Parigi e di far finta di stupirci, per l’ennesima volta, per un talento giornalistico cristallino che c’è sempre stato, anche al meeting di Rieti o alla staffetta di fondo in un bosco finlandese.

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