VIAGGIO AL CENTRO DEL MANCIO
Il debito è stato finalmente saldato. Anche se per riuscirci ci sono voluti decenni interi. Perché la seconda avventura di Roberto Mancini con la Nazionale è stata in verità la prima avventura di Roberto Mancini con la Nazionale (ne avevamo parlato qui). Da calciatore quella maglia azzurra gli era sempre sfuggita. Zero minuti in un Mondiale, una sola rete in un Europeo, una valanga di polemiche. Un giocatore polarizzante che non era riuscito a diventare il collante di un popolo intero. L’esatto contrario di Roberto Baggio. Ora Mancini è diventato l’uomo della provvidenza, il commissario tecnico della ricostruzione, quello che in tre anni ha portato la Nazionale dalle tenebre allo splendore della vittoria. Un’impresa degna più di un santone che di un allenatore. Per questo abbiamo fatto una chiacchierata con Marco Gaetani, che ad aprile ha pubblicato una bella biografia del Mancio con 66thand2nd.

Marco, nella bandella del libro troviamo una frase che, scritta prima degli Europei, aveva il sapore dell’auspicio: “Ora Mancini, forse, ha finalmente fatto pace con l’Azzurro”. A che punto siamo arrivati con questa pace?
Direi che siamo al riscatto più assoluto. Mancini aveva bisogno di un’impresa del genere per dimenticare tutte quelle delusioni che aveva provato con la maglia della nazionale da calciatore. Ha assorbito tutti gli errori che aveva commesso con i vari commissari tecnici e li ha riversati, in positivo, sul suo gruppo: chi meglio di Mancini può far capire a un calciatore quanto sia sbagliato dire no alla Nazionale? Tutto questo bagaglio di esperienze gli è servito per raggiungere un obiettivo al quale qualche mese fa credeva soltanto lui, e ha saputo trascinare tutti verso la sua visione.

C’è stata una scelta che più di altre ci fa capire quanto abbia contato per Mancini il gruppo?
La partita contro il Galles, presa nella sua interezza. È vero, era una partita tecnicamente inutile, con l’Italia già qualificata, ma l’ha utilizzata per dire a tutti quelli che avevano giocato meno nelle due partite che c’era una chance per guadagnarsi un posto: Chiesa in questo Europeo non è partito titolare e lo ha chiuso diventando un elemento imprescindibile. Forse nella testa di Mancini non è vero che erano 26 titolari, ma è stato bravo a farlo credere al gruppo, e ha ottenuto risposte praticamente da tutti quelli che sono entrati anche solo per uno spezzone.

Di quale momento di questo Europeo avresti scritto volentieri?
Mi sarei portato volentieri nel libro due fotografie: il colpo di tacco a bordo campo, che ci fa capire quanto Mancini abbia ancora nelle vene il sangue del calciatore, e ovviamente l’abbraccio con Vialli dopo la vittoria dell’Europeo. Pensavamo che l’esultanza con l’Austria potesse essere il momento più alto, invece vederli così commossi sul prato di Wembley, dove 29 anni fa avevano visto sgretolarsi il sogno di una vita, è stato un colpo al cuore, ulteriormente accentuato dalla vicenda personale che sta colpendo Vialli in questa fase della sua esistenza. Abbiamo visto un momento intimo di due amici in diretta televisiva, non è una cosa che accade tutti i giorni. È stata una scena davvero potente.

Mancini stesso ha dichiarato che da calciatore era una figura divisiva, mentre da commissario tecnico ha unito. Come te lo spieghi?
Non lo avevamo mai visto come trascinatore di un popolo intero: era stato il simbolo di spaccati di popolo, e penso soprattutto a quello blucerchiato, ma mai una figura nazional-popolare. Anzi, era stato spesso inviso al grande pubblico, per i suoi eccessi specialmente da calciatore, quella sua tendenza ad attaccare briga in campo. Ha saputo limare moltissimo questo lato del suo carattere e penso abbia ricevuto un aiuto importante da tutti quei legami che ha costruito nel corso degli anni e che abbiamo rivisto sulla panchina azzurra: nello staff tecnico c’era la storia umana di Mancini, oltre che dei professionisti di altissimo profilo.

Il Mondiale del 1986 lo ha perso per non aver chiesto scusa a Bearzot. In quello del 1990 non è mai sceso in campo. Cos’è che non ha funzionato fra Mancini e l’Azzurro?
Ci metterei anche la scelta di farsi fuori a ridosso di Usa ’94. La convinzione che ho maturato è che Mancini fosse troppo grande per accettare di essere piccolo. Da questo discorso esula un po’ il percorso con Bearzot, Mancini era davvero troppo giovane, forse ha veramente solo letto male gli eventi che gli scorrevano attorno. Nel ’90 il fatto di non aver giocato nemmeno un minuto ha dell’incredibile, penso che qualunque ct avrebbe iniziato il Mondiale con Vialli e Mancini, anche se poi Vicini ha trovato strada facendo la coppia giusta con Baggio e Schillaci. Il punto di domanda enorme, per me, riguarda il 1994: nelle situazioni climatiche estreme che l’Italia ha vissuto negli Stati Uniti, quanto avrebbe fatto comodo un Mancini anche a gara in corso?

Vialli e Mancini hanno formato una delle coppie più iconiche degli ultimi trent’anni. Dov’è che i due si sono migliorati a vicenda?
Vialli e Mancini rappresentano l’incontro di due trasformazioni. Boskov li unisce e gli cambia forma: Vialli era un esterno d’attacco e diventa un centravanti, Mancini era una punta pura e ne asseconda gli istinti di fantasista. Mancini ha preso da Vialli la straordinaria cultura del lavoro che caratterizzava Gianluca, Vialli alcuni aspetti geniali del calcio di Mancini.

Marco Gaetani, ‘Roberto Mancini, Senza mezze misure’, 66thand2nd, aprile 2021, 252 pagine, 18 euro.
Piacerà a: chi vuole esplorare tutte le sfaccettature di un personaggio complesso come Roberto Mancini.

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BIOGRAFIA DI UNA NOTTE DI GIOIA
La memoria collettiva ha finito col creare una versione molto diversa della storia. Ha scelto un fotogramma e l’ha innalzato a simbolo, l’ha trasformato in compendio di un’impresa. Una parte per il tutto. E il resto giù nel cestino. Quando si parla di Italia-Francia del 2006 si pensa subito a una sola immagine. La testa di Zidane che picchia forte contro il petto di Materazzi. L’azzurro cade a terra, il francese resta in piedi, rovesciando così il concetto stesso di vittoria. Quello scatto è diventato un fenomeno pop, un’icona immediatamente riconoscibile anche da chi non ha mai visto una partita di calcio. Ma ha finito soprattutto per raccontare una bugia. Perché ha creato una narrazione distorta di quella finale, ha alimentato il mito della vittoria italiana frutto dell’espediente, del sotterfugio grazie al quale lo sfidante batte il campione designato. L’ultimo successo Mondiale dell’Italia ruota tutto intorno a quella scena. O forse no. Perché l’espulsione di Zidane è avvenuta verso la fine dei supplementari, con la partita che era già indirizzata ai rigori, e l’errore decisivo dal dischetto è arrivato da Trezeguet, uno dei tiratori più affidabili. Stefano Piri, uno dei migliori scrittori di sport in circolazione, è andato così a recuperare l’essenza stessa di quella partita. E, di conseguenza, di quel Mondiale. Il risultato è “Italia – Francia, l’ultima notte felice”, un bel libro che è una biografia in bilico fra cronaca e saggio culturale dell’ormai penultima impresa azzurra.

L’immagine della testata di Zidane a Materazzi fotografa un momento che in verità non è poi decisivo per lo svolgimento della gara. Perché è diventato un simbolo così potente?
Molto spesso le immagini più emblematiche della storia sono mistificatorie. La realtà che c’è dietro al grande scatto è diversa da ciò che sembra. E questo è il caso anche della testata di Zidane a Materazzi. Simbolicamente è una scena molto forte, è classica per la plasticità dell’immagine, ma ha anche dei rovesciamenti rispetto al tradizionale linguaggio delle immagini: qui il vincitore cade e lo sconfitto resta in piedi.

C’entra anche la specularità dei due protagonisti?
Sì, è la resa dei conti fra due personaggi opposti. Uno dei due rappresenta l’aristocrazia del pallone, l’uomo baciato dagli dei del calcio. Materazzi invece calca quella narrazione dell’outsider molto cara agli italiani che vedono in quella scena un monumento alla furbizia. Al contrario, per i francesi rappresenta una sconfitta nobile, a testa alta. Ma anche qualcosa che ha a che fare con la virilità: Zidane che per difendere l’onore della mamma o della sorella decide di perdere un Mondiale. Ovviamente non è così. Dietro c’è molto di più. Quella però è un’immagine che riduce tutto a un conflitto individuale, e per questo è comprensibile anche a chi non sa niente di calcio.

Alla fine sopratutto in Italia si è venuta a creare una narrazione della partita che non è molto fedele alla realtà.
C’è un discorso secondo me fondamentale: la fiducia degli italiani nei propri mezzi è molto intrecciata con l’idea di essere dei fini psicologi. Gli italiani pensano di avere una sorta di soft power, gli altri sono sempre più forti, ma noi riusciamo a sopraffare chi è più forte di noi grazie a qualche espediente. Questa però è una cosa un po’ ingenerosa rispetto alla verità che ha raccontato quella partita. L’Italia non vinse grazie agli espedienti, ma è in quel modo che vogliamo ricordarcela. Ed è un peccato.

Ogni vittoria della Nazionale sembra derivare da qualcosa di mistico, di soprannaturale.
La narrazione è quella, sicuramente. La verità è abbastanza semplice: siamo molto divisi in fazioni e questo si ripercuote anche sulle nostre squadre di calcio e nel modo in cui l’opinione pubblica segue la Nazionale. L’accerchiamento è l’unica condizione in cui gli italiani riescono a stare uniti.

A proposito di accerchiamento: quanto ha inciso Calciopoli su quella vittoria?
Secondo me molto. I personaggi di maggior carisma, i leader spirituali di quel gruppo erano Lippi, Cannavaro e Buffon. E tutti erano molto coinvolti in Calciopoli. Quella Nazionale si è unita come se avesse subito un torto. Anche se il torno, in verità, non c’era.

Tu hai detto che la vittoria dell’Italia nel 2006 è anche un ricordo “pericoloso”. Perché?
Non vale solo per Calciopoli, ma per tanti altri scandali del nostro Paese. C’è un dibattito fuorviato. Durante lo svolgimento di quel Mondiale salta fuori il tema dell’Amnistia, del condono. Apparentemente vincono i buoni, perché poi questa idea non è andata in porto nonostante la vittoria del Mondiale. Il fatto è che non ci si è concentrati sulle sanzioni, perché c’è stato un Mondiale contemporaneo alle sanzioni. Così è saltato tutto il dibattito sulle distorsioni che avevano portato il calcio italiano a quel punto, che l’avevano reso non più sostenibile. La palingenesi è questa: vinciamo il Mondiale, puniamo tre o quattro grandi colpevoli e tutto finisce lì.

La partita contro la Francia è il bignami di quel Mondiale, ma la partita più epica è un’altra.
Quella contro la Germania. Perché è la partita più bella, ma anche quella che ci piace narrativamente di più. È una falsa impresa. O meglio, ce la siamo raccontata come un’impresa per il modo in cui è arrivata. Ma se rivedi la partita c’è un divario tecnico impressionante fra le due squadre. Il match si presta però a un racconto eroico, dove il protagonista stramerita di vincere, fa fatica, poi arriva sl successo. Ma la partita con la Francia è una metonimia molto più fedele: una partita di sacrificio, non di dominazione ma di resistenza, da parte di una squadra che non vuole perdere per nessun motivo.

Quanto è invecchiato quel calcio in questi 15 anni?
Le due squadre mi hanno dato sensazioni molto diverse. L’Italia è molto forte, molto bella da vedere, ma è una squadra rigida, con ruoli molto compartimentati: Gattuso fa il mediano mediano, Pirlo fa il regista regista, e così via. La Francia è più avanti. Tutti fanno tutto. Quando l’ho rivista mi è sembrata una partita fra una squadra degli anni Novanta contro una del 2015.

Domenech è quasi in personaggio comico all’interno del romanzo di quella partita. Dove finisce la realtà e dove inizia la narrativa?
Sicuramente è lui il mio personaggio preferito, è molto divertente. Mentre per i calciatori esistono dei parametri effettivi per capirne l’importanza, misurare il valore reale di un allenatore è molto difficile. A volte il loro valore percepito diventa il loro valore reale. Durante la sua ultima stagione al Nantes, Domenech è stato accolto con la musichetta del circo. Eppure è andato a un calcio di rigore dall’essere campione del Mondo. È una sliding door incredibile. Lui è anche un bel personaggio. Narcisista, ossessionato da sé stesso, ma anche dall’arte, dall’idea di bellezza, di creatività. Solo che è stato incapace di esprimere questi elementi in modo da coinvolgere gli altri. Un artista fallito.

Dici che da quella partita inizia il declino del calcio italiano. La squadra che ha vinto l’Europeo rappresenta più una vicenda incidentale o un’inversione di tendenza?
Non c’è nessuna inversione di tendenza in positivo. C’è stato un grande progetto sportivo dell’allenatore che ha vinto con una squadra più modesta rispetto a quella del 2006. Abbiamo avuto la fortuna che i calciatori di questa generazione sono stati in grado di ricreare un club in Nazionale, come i nostri centrocampisti, che sono dei palleggiatori.

Quindi non ci sono sovrapposizioni fra queste due Nazionali?
È difficile immaginare due squadre più diverse: quella di Lippi era fondata sul lavoro, sul sudore e sul sacrificio. Quella di Mancini è fondata sulla gioia, sulla bellezza. L’unico tratto in comune l’abbiamo visto contro la Spagna, quando l’Italia non ha voluto perdere per nessun motivo.

Stefano Piri, ‘Italia-Francia, l’ultima notte felice’, 66thand2nd, 2021, 172 pagine, 15 euro.
Piacerà a: chi vuole leggere un libro scorrevole ma denso di contenuti, capace di raccontare molto più di quello che è successo in campo.

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IL MUNDIAL COME ROMANZO
Una partita a Subbuteo aveva previsto tutto. Perché alla vigilia dei Mondiali di calcio si giocano i Mondiali di calcio in punta di dito. È il 1982 e a Barcellona vince Renzo Frignani, che batte in finale il tedesco Hans Becker. È lo spoiler del Mundial. Eppure nessuno sembra accorgersene. In quella sfida fra omini basculanti alti due centimetri c’è tutta l’estetica del calcio anni Ottanta. Un culto che ha in 90° Minuto la sua liturgia, nella Rai il suo celebrante, nello scambio delle figu la sua comunione. Un immaginario comune che diventa il punto di partenza del libro di Furio Zara. Ma il racconto di un football estinto non non è l’altare eretto per la messa del nostalgismo. È una scelta che punta a immergere totalmente il lettore in un calcio che ormai sembra perso nel tempo, inghiottito dall’oblio. Un gioco più ingenuo, forse, ma che è ancora in grado di parlare la lingua dell’epica. Quello di Zara non è il semplice racconto di un Mondiale. È un puzzle, un collage che incastra uno accanto all’altro giornalisti, calciatori, allenatori, presidenti di club, tutti tenuti insieme dalla capacità dell’autore di racchiudere l’essenza di un personaggio in una sola parola (inarrivabile la descrizione di Recoba nel volumetto “Gamba Tesa”). Un viaggio emozionale che parte dalle amichevoli dove l’Italia faceva onestamente pena e arriva fino alla sera dell’11 luglio del 1982. Un «libro-film», come lo definisce Zara, che scorre via piacevolmente una pagina dopo l’altra, un ricordo dopo l’altro.

Furio Zara, 1982, ‘Un’estate, un mondiale, una promessa di Felicità’, Ultra sport, 2012, 186 pagine, 6.99 euro (in ebook).
Piacerà a: chi vuole leggere un autore capace di trasformare la cronaca in letteratura. Sempre.

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QUANDO ERAVAMO CAMERIERI
Avanzano in trentamila. Lentamente. Lungo le strade di Londra, fino alle porte di Wembley. La stampa di sua Maestà li ha etichettati come “camerieri“, stando bene attenta a far tintinnare il più possibile un nota di snobismo. Il riferimento è piuttosto chiaro. Indicano quell’esercito di italiani che lavora nei ristoranti e nelle caffetterie della City. Sono persone che vengono intrappolate in uno stereotipo, in un’etichetta che si porta dietro un giudizio morale. D’altra parte lo diceva anche Ennio Flaiano: “Se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più”. Un paradosso. O forse no. Il 14 novembre del 1973 i camerieri riempiono la metà di Wembley. Si gioca molto di già di una partita. Quella gara, come scrive nella prefazione Roberto Beccantini esce “dal territorio della sfida meramente sportiva per invadere il territorio della lotta di classe e del ri-sentimento popolare”. Italia e Inghilterra si affrontano in un’amichevole. Anche se l’ambiente non è dei più cordiali. Gli azzurri non hanno mai battuto i Tre Leoni a casa loro. Almeno fino a quel giorno. Perché un gol di Fabio Capello a quattro minuti dalla fine scrive una storia tutta nuova. Sia collettiva che individuale. Perché le vicende della Nazionale si intrecciano con quelle di Aldo Vignola, il nonno dell’autore, un lord di provincia con il mito del made in England, non aveva messo mai piede in Inghilterra prima di quel momento. Un ricordo personale che si trasforma in storia di una Nazionale. Anzi, di un’intera Nazione.

Fabiano Lorenzo, ‘Il cameriere di Wembley’, Edizioni Incontropiede, novembre 2015, 185 pagine, 16.50 Euro.
Piacerà a: chi vuole un libro leggero, che racconta i precedenti fra Italia e Inghilterra.

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MORSI DI EURO
Una enciclopedia non deve essere formata per forza da una serie infinita di volumi. Perché la storia degli Europei di calcio è tutta condensata in un manualetto di nemmeno trecento pagine. Tanto basta a raccontare un viaggio lungo cinquantasei anni che, alla fine, ruota molto intorno a Parigi. È lì che l’Unione Sovietica ha vinto la prima edizione dell’Europeo. Ed è lì che il Portogallo ha trionfato nell’ultima, anzi, ormai nella penultima edizione. Ogni campionato è analizzato nel dettaglio. Dal contesto sociopolitico in cui si incastra fino all’eredità, ossia alle mutazioni del Gioco che introduce. Senza dimenticare un’analisi sui protagonisti, il racconto della finale, i tabellini delle partite e, soprattutto, tante curiosità. Si spazia dalla presenza della Nazionale olandese al concerto di Withney Houston alla vigilia della finale del 1988 fino alle scommesse di Emilio Fede sulla Grecia nel 2004 (stimate allora in 235mila euro, devoluti in parte in beneficienza).

Paolo Valenti, ‘Da Parigi a Londra, Storia e storie degli Europei di calcio’, Ultra Sport, maggio 2021, 267 pagine, 16.50 euro.
Piacerà a: chi è alla ricerca di un testo completo sugli Europei, in bilico fra storia e curiosità.

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DUE ANIME DI UNA SOLA PARTITA
La sfida non era delle più semplici. Perché raccontare una partita diventata sentimento vuol dire giocare su un campo al limite della praticabilità. Tutto è stato già detto. Tutto è stato già scritto. Così Roberto Brambilla e Alberto Facchinetti hanno trovato la tattica vincente nell’allargare il gioco. A finire al centro del libro non è solo la partita del secolo, quel 4-3 fra Italia e Germania Ovest ai Mondiali del 1970, ma soprattutto le sue premesse. A fare la differenza è stato il lavoro di recupero della memoria. Sterminato, preciso, puntuale. Fonti che si riversano nel volume sotto forma di aneddoti, di dettagli preziosi. Dalle scarpette dei nostri avversari fino alla giornata piuttosto complessa del commentatore della Germania, passando per Pizzul che vola con la Mánnschaft attraversando turbolenze notevoli. Un libro in capitoletti brevi che si legge come un romanzo ma che è curato come un documentario. E che proprio per questo diventa prezioso.

Roberto Brambilla e Facchinetti Alberto, ‘Quattro a Tre’, Edizioni Incontropiede, maggio 2020, 134 pagine, euro 14.50
Piacerà a: chi ha voglia di un testo agile ma completo che offre un punto di vista diverso sulla partita del secolo, raccontata sia dalla prospettiva degli italiani che da quella dei tedeschi.

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