Il presente assomiglia molto a una strana forma di compensazione. Perché il suo futuro è scoppiato come una bolla di sapone in una serata d’estate del 1988. Sul prato verde di Düsseldorf un ragazzo corre a perdifiato verso la tribuna. Ha ventitré anni e il corpo fasciato da una maglia azzurra con il numero 18 appiccicato sulle spalle. Avanza un metro dopo l’altro, con un grido di rabbia che gli spalanca la bocca e l’indice della mano destra puntato dritto contro la tribuna stampa. Sulla sua faccia non c’è nessuna traccia di gioia. Anche se ha appena segnato il gol che ha portato in vantaggio l’Italia contro la Germania Ovest nella prima gara dell’Europeo. La palla gli era arrivata da destra. E lui aveva dovuto calciare immediatamente per evitare l’intervento in scivolata di un difensore avversario. Anche se il suo corpo era sbilanciato. Anche se il suo piede d’appoggio aveva perso aderenza con il terreno. Il suono del pallone che si strofina contro la rete diventa l’annunciazione di una liberazione. Collettiva, per quella metà del Rheinstadion che schizza in piedi a esultare. Ma anche personale. Perché con quel gol Roberto Mancini ha messo a tacere critici e scettici. O almeno così pensa.

Dopo la partita l’attaccante si presenta proprio da quelli che ha zittito. “Adesso sento che è tutto finito, che potrò giocare più tranquillo, senza essere ancora perseguitato dall’ossessione del gol”, dice. Perché quello realizzato alla Germania è il suo primo centro in azzurro in 14 presenze. Troppo poco per uno con il suo talento. Quello che sembra l’incipit di un capitolo tutto nuovo diventa ben presto un finale amaro. Nelle successive tre partite Mancini non segna più. E viene sempre sostituito. Nella semifinale persa contro l’Unione Sovietica esce addirittura alla fine del primo tempo. La sua avventura azzurra finisce praticamente lì. Perché non giocherà più neanche un minuto in un grande torneo internazionale. Solo amichevoli e qualche gara di qualificazione. Con altri tre gol buoni giusto per le statistiche e qualche giocata eccezionale lasciata a macerare in un mare di rimpianti. Quella di Roberto Mancini con la Nazionale è stata tutto fuorché una storia d’amore. Troppo giovane per essere aggregato alla rosa di Spagna ’82, perde il giro di giostre successivo per una bravata.

Prima delle Olimpiadi del 1984 l’Italia gioca una tournée in Nord America. Dopo aver affrontato gli Stati Uniti a New York i veterani azzurri organizzano una serata in discoteca, allo Studio 54. E invitano anche il Mancio. Quando rientrano sono le 6 di mattina. I veterani passano. Perché Cesare Maldini ferma solo l’attaccante della Sampdoria. “Il signor Bearzot ti aspetta in sala colazione”. Mancini riceve una lavata di capo impressionante. Il cittì grida, gli dà del “somaro“, giura che non lo avrebbe più chiamato. E poi mantiene la sua promessa. Il problema è che quella chiusura non è totale. Bearzot lascia una porta aperta. Solo che Mancini non se rende conto. Anni dopo i due si rincontrano. Il commissario tecnico si avvicina rapidamente. Ha una curiosità che non può più restare insoddisfatta. “Mi domandò: ‘Perché non mi hai chiamato per scusarti?’. Rimasi di sale – ha raccontato Mancini a GQ – non l’avevo fatto perché mi vergognavo troppo del mio comportamento, ed ero certo che lui fosse ancora furioso con me. Bearzot si mise le mani nei pochi capelli che gli restavano. ‘Io aspettavo soltanto una tua telefonata per richiamarti in Nazionale. Ma senza le scuse non potevo fare niente, e così ti sei perso il Mondiale del 1986′. Volevo morire”.

Dopo non andrà meglio. Anzi. Nel 1990 non giocherà neanche un minuto. Sono le Notti Magiche. Ma solo per Baggio e Schillaci. Mancini resta seduto. Sempre. Mentre gli altri arrivano a un passo dal sogno lui sprofonda in un incubo. Dal quale non riemergerà. L’epilogo arriva il 23 marzo del 1994. L’Italia gioca un’amichevole a Stoccarda. Roberto Baggio non c’è. Così Sacchi convince l’altro Roberto, Mancini, a prenderne il posto, a diventare il vice del Divin Codino. È un ruolo che ambiscono in molti. Ma non il Mancio. L’attaccante è affetto da quello che Ennio Flaiano chiama “complesso di parità”. Lui non si sente inferiore a nessuno. Tantomeno a Baggio. Non ama i dualismi. E non perde occasione per ribadirlo. Mancini è come Aldo Busi che dice: “Perché dovrei voler essere Flaubert quando ho la fortuna di essere Aldo Busi?”. Contro al Germania parte titolare. Solo che alla fine dell’intervallo l’attaccante della Sampdoria non rientra in campo. Al suo posto entra Gianfranco Zola. È troppo. Per tutto il viaggio di ritorno Mancini sente il risentimento gonfiarsi nel suo stomaco. Fino a quando non riesce più a trattenerlo. Mentre la squadra aspetta i bagagli si avvicina a Sacchi. “Senta – dice – non è stato ai patti. Non mi chiami più. Con la Nazionale ho chiuso”. Ed è vero. Almeno fino al maggio del 2018.

Perché dopo l’umiliazione della mancata qualificazione a Russia 2018 e dopo l’interregno di Gigi Di Biagio, Mancini diventa commissario tecnico. Sembra un paradosso. La rinascita azzurra è stata affidata proprio all’uomo che in Nazionale non aveva messo radici. Ed è proprio per questo che funziona. Appena assunto Mancini pronuncia una frase molto particolare. “Voglio vincere da allenatore quello che non ho vinto da calciatore: la Coppa del Mondo“. Per molti è freddura, qualcosa di molto vicino alla solita banalità da conferenza stampa. E invece racconta alla perfezione il lavoro di Mancini. Perché quella squadra che era stata declassata a barzelletta, ora è una delle più ammirate in Europa. Merito del suo commissario tecnico, che ha saputo plasmare un gruppo a sua immagine e somiglianza, travasando in quel collettivo tutte le sue contraddizioni e i suoi tormenti. A partire dall’ossessione per la vittoria. “Volevo solo vincere, non mi interessava partecipare”, ha detto una volta al Guardian. Una lezione che ha imparato presto anche suo cugino. Quando avevano 9 anni si era permesso di battere Roberto in una partita di ping pong. Un’umiliazione che il giovane Mancini aveva deciso di lavare via lanciandogli in testa la racchetta. Mancini è stato un personaggio dominato da antinomie inconciliabili. Ma è stato soprattutto frainteso.

Per anni è stato descritto come un individualista, un accentratore. Invece è stato un solista perfetto che si esaltava nella dimensione collettiva. A Mancini “faceva un po’ schifo segnare”, ha detto una volta Vialli. Ed è difficile trovare una frase che racconti meglio la sua parabola da calciatore. Pochi altri numeri dieci sono stati così al servizio della squadra. L’assist per il Mancio era ancora più prezioso del gol. Era il suo lasciapassare per l’eternità. Gli altri segnavano perché il 10 offriva loro questa possibilità. Grazie a colpi che gli altri non riuscivano a pensare, grazie a corridoi che gli altri non riuscivano a vedere. Mancini è stato un personaggio dominato da antinomie inconciliabili. Un ragazzo di umili origini che con il tempo sembra essere diventato snob. È un talento che non ha nulla di popolare. E che per questo non è mai riuscito a farsi sentimento come Roberto Baggio. Mancini è stato sempre opposizione che non è mai riuscita a diventare maggioranza. Anche quando ha vinto, l’ha fatto in periferia. Il successo non lo ha mai contaminato perché i suoi cicli sono stati contingentati nel tempo. Prima con la Sampdoria. Poi con la Lazio. È su quest’asse che è diventato un Robin Hood pronto a sfilare titoli alle squadre a strisce verticali per regalarli a chi era rimasto con la pancia vuota per molto tempo.

I suoi legami calcistici non sono mai stati immediati. La prima frase che pronuncia arrivato alla Sampdoria è bizzarra: “Ma come fa la gente a vivere in una città del genere?”, si domanda. Non ha ancora 18 anni ma in testa ha già una granitica certezza: lui in Liguria non si fermerà a lungo. Si sbaglia. Perché di quella città diventerà vanto, figlio adottivo, simbolo. In campo era più capobranco che leader. La perfezione era la stella da seguire. Un tormento che lo ha divorato, che ha affilato gli spigoli del suo carattere, che lo ha fatto vivere in uno stato di nervosismo permanente. Chi non parlava la sua lingua diventava automaticamente intralcio, ostacolo da rimuovere. Migliorando se stesso ha migliorato gli altri. Anche se a volte con un prezzo piuttosto caro. Quello pagato alle relazioni umane. Mancini era capace di mandare a quel paese un compagno per un passaggio sbagliato. Stargli accanto era problematico. Soprattutto se non si capiva che il suo fine era il bene collettivo prima ancora che individuale. Le manie di perfezione di Michael Jordan hanno spinto i suoi compagni dei Chicago Bulls verso la storia. Mancini ha fatto lo stesso con la Sampdoria. Non è un caso che l’ex calciatore abbia dichiarato di aver avuto due idoli: MJ e Giovanni Paolo II. I problemi erano dietro l’angolo. Perché Mancini si accendeva facilmente. Anche troppo. Un giorno, durante un allenamento con la Sampdoria, Vialli si era rivolto al capitano chiamandolo “Mancini”. Non “Mancio”. Non “Roberto”.

Pronunciare il suo cognome sottintendeva un tono di sfida. O almeno così era per lui. Tanto che non aveva parlato a Gianluca per giorni interi. Nel corso della storia Mancini ha alterato tocchi di velluto e parole pesanti come pietre, successi e battute a vuoto parimenti impensabili. Bastiancontrario a oltranza, sembrava poter essere raccontato alla perfezione da quella famose frase di Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati”. Contraddizioni che sembrava aver portato anche nella sua avventura da ct. In molti avevano storto il naso all’annuncio del suo ingaggio. Mancini era considerato ormai uno troppo abituato a schierare campioni, uno che si affidava alle individualità. Ma i pregiudizi sono durati poco. Mentre con un risultato da ribaltare Ventura chiedeva di scaldarsi a De Rossi, che in maniera piuttosto colorita dissentiva suggerendo l’ingresso di Insigne, Mancini ha dato una mentalità nuova a questa squadra. L’Italia non gioca più all’italiana. Ora attacca. Sempre. Gioca, si diverte, fa divertire. E i risultati ne sono la conseguenza diretta. Le individualità si sono fuse in un collettivo. Il centrocampo è soverchiante, perfettamente integrato. Sorregge e protegge allo stesso tempo una squadra senza fuoriclasse assoluti, dove il gruppo riesce a nascondere l’assenza di un grande attaccante. L’arrivo in semifinale era tutto fuorché scontato. Così come l’idea di poter ritrovare il piacere nel veder giocare una squadra che negli ultimi anni aveva regalato più delusioni che gioie. Un piccolo capolavoro che Mancini pensa di poter ancora migliorare.

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