“Non creiamo altri luoghi fatti per legare le persone”. Benedetto Saraceno, segretario generale dell’Institute of Global Mental Health di Lisbona, è tra coloro che sono intervenuti alla conferenza nazionale per la salute mentale. Un appuntamento programmato da diverso tempo e che si è tenuto in un momento in cui la psichiatria è tornata a essere di grande attualità, dopo che in Friuli-Venezia Giulia alcuni medici basagliani hanno denunciato presunte irregolarità in un concorso per la nomina del direttore del centro di salute mentale 1 di Trieste. Dalla selezione, a cui hanno partecipato circa una decina di candidati, è uscito vincitore Pierfranco Trincas, medico sardo non basagliano che, prima della fase orale avvenuta a porte chiuse, partiva con un punteggio inferiore rispetto ai colleghi professionalmente cresciuti seguendo le tracce di Franco Basaglia, lo psichiatra che 40 anni fa chiuse definitivamente i cancelli dei manicomi.

Secondo la denuncia dei medici basagliani, il sospetto è che la nomina rientri in un più ampio progetto di erosione dei servizi di sanità pubblica a favore di un ulteriore avvicinamento al prototipo di medicina privata di scuola lombarda. “Le amministrazioni locali e regionali sono il grande alleato della sanità pubblica, ma possono divenirne l’ostacolo – ha spiegato Saraceno – E per questo motivo l’esperienza triestina sta ricevendo nelle ultime settimane migliaia di attestazioni internazionali di stima e di sostegno”. Ad alimentare dubbi e timori è soprattutto il trascorso professionale dello specialista sardo che ha diretto a Cagliari una struttura in cui i pazienti vengono sottoposti a pratiche che a Trieste sono considerate arcaiche e disumane, come la contenzione, pratica che attraverso l’uso di tecniche fisiche o chimiche mira a limitare i movimenti del paziente.

Agli occhi dei basagliani, la vittoria appare ancor più sospetta se si mettono a confronto i curriculum del direttore designato Trincas e del candidato formatosi a Trieste Mario Colucci, inizialmente in testa alla graduatoria per esperienze e pubblicazioni. Negli ultimi cinque anni, il medico sardo ha svolto una singola attività didattica contro le otto dello psichiatra triestino. Il rapporto della partecipazione agli eventi formativi è invece di 1 a 72, mentre quello delle pubblicazioni scientifiche è di 2 a 22. È anche alla luce di simili numeri che i medici del Friuli-Venezia Giulia vogliono capire come sia stato possibile che “un colloquio orale di pochi minuti abbia ribaltato gli esiti di un concorso dove la continuità con la tradizione della città era requisito fondamentale per essere ritenuti idonei all’incarico”.

“Quando abbiamo cominciato volevamo costruire un modello di cura che rispondesse alla riscoperta della persona al di là della diagnosi – spiega lo psichiatra Roberto Mezzina, ex direttore di uno dei Dipartimenti di salute mentale Fvg e tra gli autori della lettera di protesta da cui tutto è partito – Ora però i servizi si sono impoveriti man mano che i leader della battaglia contro i manicomi sono andati in pensione, non c’è stato un supporto a una trasmissione di conoscenze. Gli psichiatri che escono dalle università sono sempre più simili ai medici di qualsiasi altra branca. Sta rinascendo una mentalità fondata sulla fede incrollabile nei farmaci, che guarda all’oggetto malattia e non alla globalità della persona”.

Lo scontro si gioca in campo sanitario, ma molte delle scorie che trascina con sé sono politiche: la giunta regionale di centrodestra ha tentato di liquidare la polemica agli albori attraverso le parole dell’assessore alla Sanità, Riccardo Riccardi, che si affrettò a sostenere come “essere basagliani” non fosse un titolo concorsuale, vendendo come retriva battaglia ideologica quella che, invece, è una battaglia pratica. “La legge 180 che ha imposto la chiusura dei manicomi era una legge quadro, forniva principi generali – prosegue Mezzina – Ma le regioni agivano da sole, con il risultato che hanno continuato a fluttuare grossi pezzi di privato, soprattutto al centro e al sud Italia, dove esistono cliniche in cui le persone si trovano ancora oggi rinchiuse”.

L’ordinamento avrebbe dovuto uniformare la gestione della salute mentale, ma ogni regione ha assorbito a modo suo la rivoluzione, andando avanti o indietro a seconda dell’amministrazione del momento. Questo percorso a velocità alterne ha comportato profonde differenze nella percezione e nel trattamento del disagio psichico, ben fotografate dai numeri. La Sardegna da cui arriva Trincas, per esempio, è una delle regioni in cui si attua il maggior numero di Tso (+64%, calcolato sul tasso di riferimento nazionale che nel 2018 era di 14,6 ogni 100mila abitanti). Un dato in contrapposizione alla tendenza del Friuli-Venezia Giulia che, insieme alla provincia autonoma di Bolzano e alla Basilicata, è il luogo con il rapporto più basso (-71,6%).

Da quando la polemica è nata, le voci di psichiatri ed esperti da tutto il mondo non hanno smesso di affastellarsi, nella spontanea costruzione di un baluardo fatto di petizioni e raccolte di firme. Un ampio fronte d’attacco che ha riscoperto nella difesa del modello Trieste il suo sigillo identitario. “Non c’è posto al mondo che abbia un sistema così efficace a un costo così basso come Trieste – sottolinea in un appello firmato da centinaia di esperti Fran Silvestri, presidente dell’International Initiative for Mental Health leadership – Se il sistema non viene mantenuto, ci sarà un abbassamento della qualità, con un grave impatto sul contesto comunitario”. In un’altra lettera, indirizzata al presidente leghista del Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, si legge invece che “un certo numero di atti amministrativi minaccia di smantellare l’esperienza di salute mentale di comunità di Trieste e della Regione Friuli-Venezia Giulia che ha aperto la strada alla legge di riforma psichiatrica e alla chiusura dei manicomi in Italia e nel mondo. Tale modello è punto di riferimento fondamentale per servizi basati sui diritti e incentrati sulle persone, come riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ciò nonostante oggi è a rischio per l’impoverimento delle risorse umane e materiali e per scelte che riguardano la continuità nella direzione dei servizi”.

L’eco è stata ulteriormente amplificata dall’Oms che lo scorso 10 giugno ha diramato un documento in cui il modello Trieste è citato come uno dei tre migliori al mondo, per l’attenzione garantita non soltanto al paziente ma anche a tutto il contesto che lo circonda: “Abbiamo lanciato un documento che introduce i tre servizi che rispondono meglio ai bisogni legati alla malattia psichiatrica. Uno è proprio quello di Trieste. E gli altri, quello francese di Lille e quello brasiliano di Campinas, prendono a loro volta esempio dal modello triestino – ha sottolineato sempre durante la conferenza nazionale per la salute mentale Dévora Kestel, direttore del dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell’Oms – Queste realtà spiccano per lo sviluppo di una rete di servizi integrati capaci di coordinare internamente e con il resto del territorio le risposte ai bisogni più vari, anche quelli sociali che la malattia mentale produce”.

Uno dei documenti più recenti in circolazione è quello diffuso ieri proprio dagli utenti e dai familiari del centro di salute mentale 1 di Barcola, in cui viene chiesto a Trincas di rinunciare al suo incarico: “Constatata la Sua oggettiva non conoscenza della città, il difficilissimo contesto lavorativo del centro di salute mentale, struttura in cui lei mai ha lavorato, non vediamo sussistere fondati elementi sufficienti perché la Sua Direzione possa garantire qui continuità ed ancora più progresso operativo. Le esprimiamo con rispettosa franchezza la richiesta di rinunciare a questo incarico. Ne saremmo tutti più sollevati”.

Un po’ discostati dai riflettori della politica e della sanità, sono proprio i pazienti psichiatrici e i loro familiari i veri protagonisti della storia. Persone a cui la garanzia di ricevere pratiche umane e di disporre di centri di salute 24/7 può cambiare la vita. “La mia malattia mentale mi ha chiuso la bocca con il filo di ferro. Non ero più in grado di stare al mondo con le parole. Ma i servizi di salute mentale mi hanno supportata, sono stati la mia famiglia. Se non ci fossero stati, a quest’ora sarei morta – racconta Elena Cerkvenič, triestina di 56 anni che da oltre 25 combatte per ricacciare indietro il mutismo a cui il disagio psichico l’aveva costretta – La realtà del disagio mentale è un terreno inesplorato, ci sono molti pregiudizi. Neanche io sapevo nulla quando mi ci sono trovata. Ma ora so che se noi matti dovessimo avere una crisi, mai vorremmo ritrovarci con i polsi e i piedi legati”.

Ad aver invece esperienza di che cosa significhi affrontare un percorso terapeutico lontano dai principi di umanità adottati da Basaglia è Silva Bon: “La prima volta sono stata ricoverata 40 anni fa in una clinica psichiatrica triestina, che però aveva sistemi antichi di cure e di prese in carico. Mi facevano un’iniezione di psicofarmaci una volta al mese e, da quel momento, non avevo più contatti con nessuno, venivo lasciata in balia di me stessa – spiega Silva, docente di italiano e storia in pensione – Nei primi anni Novanta sono invece approdata al centro di salute mentale di Trieste e lì la mia vita è cambiata perché mi hanno aiutata come persona, insieme alla mia esperienza. Ora non vogliamo che si torni indietro”.

Preoccupazioni come quelle espresse da Silva e da Elena emergono pubblicamente oggi, grazie al vasto dibattito che il concorso ha generato. Ma sono anni che i medici basagliani denunciano le cattive pratiche adottate in alcuni Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) nel resto d’Italia, dove non sono mancati casi di incidenti che hanno portato alla morte di pazienti ricoverati. Come la vicenda di Elena Casetto, 19 anni, morta due anni fa carbonizzata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo mentre era contenuta. O come Agostino Pipia, 45 anni, anche lui deceduto dopo una contenzione all’ospedale di Cagliari.

Altre criticità sono state messe in luce dal Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà che ha steso un rapporto che includeva anche il Spdc 2 dell’ospedale SS.Trinità di Cagliari, di cui era direttore Trincas. Nella relazione emerge con particolare insistenza la preoccupazione per la gestione dei trattamenti sanitari obbligatori, generalmente utilizzati come indicatori indiretti della scarsa efficacia dei programmi preventivi, terapeutici e riabilitativi: “Nel Spdc 2, nei cosiddetti ‘Tso di reparto’ – si legge nel testo – la doppia convalida (legalmente necessaria per effettuare la pratica, ndr), viene data da medici dello stesso reparto, deludendo così la ratio della norma” che prevede che il trattamento venga eseguito sulla base di due valutazioni professionali indipendenti e non da medici che lavorino insieme. “Inoltre – si specifica – era assente la comunicazione da parte del giudice tutelare della convalida del Tso”.

“Quando mio figlio ha iniziato a stare male sono stato catapultato in un nuovo mondo, senza sapere che prospettive ci fossero – racconta Claudio Cossi, presidente dell’associazione dei familiari A.Fa.So.P. NoiInsieme onlus, papà di un uomo di 35 anni che soffre di disagio mentale – Chi ha un parente con disturbi mentali sa che deve condurre una sorta di vita parallela in cui ricostruire il mondo che queste persone perdono durante le crisi. Così finisce che anche gli stessi familiari comincino a soffrire di disturbi perché faticano a loro volta ad avere una vita normale. Per questo i centri di salute mentale in Friuli-Venezia Giulia seguono anche i parenti di chi sta male. E il sistema funziona così bene che sono venuti da altre città per fare curare qui i loro figli. Ora noi tutti ci chiediamo: se sarà distrutto il modello basagliano, quale sarà l’alternativa?”.

Articolo Precedente

Napoli Pride, Francesca Pascale: “Ddl Zan? C’è una destra cieca, ipocrita e bigotta che non sa ascoltare, è lontana dal desiderio delle persone”

next
Articolo Successivo

Eutanasia legale, 40 anni di leggi incompiute e tentativi a vuoto del Parlamento: ecco perché il referendum è l’ultima chance

next