Prima del vitalizio restituito a Roberto Formigoni, al Senato ci fu l’immunità retroattiva garantita a Gabriele Albertini per affermazioni fatte quando nemmeno era senatore. Ma quella piroetta in cui si esercitò Palazzo Madama nel gennaio del 2017, mentre l’ex sindaco di Milano era a processo per calunnia aggravata dopo la querela del magistrato Alfredo Robledo, viene ora sconfessata dalla Corte costituzionale che in una sentenza depositata oggi scrive: “È decisivo constatare che le dichiarazioni oggetto del procedimento penale sono state pronunciate da Albertini nell’ottobre del 2012, quando egli ancora non ricopriva la carica di senatore. In quel momento, infatti, Albertini era componente del Parlamento europeo, mentre sarebbe stato eletto senatore soltanto nel marzo del 2013. Di conseguenza, le opinioni in questione non sono state espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari”. Un’osservazione già ovvia quattro anni fa. Ma questo non impedì ai senatori di confermare il parere espresso a favore di Albertini un paio di mesi prima, nel novembre del 2017, dalla Giunta per le immunità del Senato, con il voto favorevole del centrodestra e del Pd, fatta eccezione per Felice Casson che votò contro insieme a tre senatori del M5S.

Una decisione, quella della Giunta, presa nei giorni in cui Albertini, che sosteneva il governo Renzi seduto nei banchi del Nuovo centrodestra, aveva fatto capire apertamente una cosa: avrebbe fatto mancare i suoi voti alla maggioranza, se la maggioranza non lo avesse salvato. E così Albertini, che già aveva provato a ottenere l’immunità dell’Europarlamento senza riuscirci, incassò la benevolenza del Senato. E i suoi convincimenti su Robledo espressi quando non era senatore e che nulla c’entravano col Senato, diventarono per magia convincimenti legati al suo mandato parlamentare. Ma ora la deliberazione del Senato sulla sua “insindacabilità” è stata annullata dalla Consulta. E Albertini, dopo aver resistito nelle ultime settimane alle lusinghe del centrodestra per convincerlo a ricandidarsi a sindaco di Milano, torna a processo davanti alla Corte d’Appello di Brescia che aveva sollevato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale.

La vicenda parte da lontano, quando Robledo era ancora procuratore aggiunto a Milano e indagava su alcune vicende legate all’amministrazione guidata da Albertini, sindaco della città dal 1997 al 2006: la questione degli emendamenti in bianco, le quote della società autostradale Serravalle, i contratti derivati sottoscritti dal Comune. Ormai non più sindaco, ma eurodeputato a Bruxelles, Albertini aveva sostenuto a più riprese che le indagini fossero mosse da fini politici e che Robledo “usava metodi da gestapo”. Accuse ribadite nella sostanza nell’ottobre del 2012, sia in una memoria depositata in tribunale, sia in un esposto inviato al ministero della Giustizia in cui accusava il magistrato di diversi reati.

Ma per Robledo, Albertini mentiva sapendo di mentire. Di qui la querela per calunnia aggravata in seguito alla quale Albertini era finito a processo, per poi cercare di farsi scudo con l’insindacabilità chiesta al Senato. Nonostante la decisione di Palazzo Madama, il tribunale di Brescia aveva portato avanti il processo e assolto l’ex sindaco nel merito. Robledo aveva fatto ricorso, chiedendo che venisse riconosciuta la responsabilità di Albertini, ma ai soli fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno (in mancanza del ricorso della procura di Brescia, Albertini non avrebbe più potuto subire condanne in ambito penale). Partito il processo, la Corte di appello non aveva confermato l’assoluzione in primo grado, ma aveva sollevato il conflitto di attribuzioni con il Senato davanti alla Consulta, che oggi si è espressa. Ora Albertini dovrà di nuovo difendersi per quelle dichiarazioni fatte nel 2012 e spacciate, da lui e dal Senato, per opinioni di un senatore. Che però senatore non era.

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