Ciao, mi chiamo Giacomo Baldin e ho 29 anni. Fin da bambino ho sognato l’Africa, finché all’età di 20 anni sono partito alla ricerca di questa terra tanto diversa dalla nostra cultura occidentale, l’Etiopia. Adesso vivo qui stabilmente, faccio la guida turistica e collaboro con una ONG italiana che si occupa di infanzia. Vivo una vita completamente fatta di sorprese quotidiane, lontana dallo stress e dalla routine a cui ero abituato e questo mi permette di godere dello stile di vita nelle campagne etiopiche. Da qui l’ispirazione per questi miei scritti.

di Giacomo Baldin

Sei della mattina. Il profumo di caffè tostato invade la mia stanza. E insieme a lui il rumore saltellante dei chicchi nel pentolino agitato da Zeritu. I chicchi di caffè mentre si tostano vanno agitati con un movimento di polso continuo qui in Etiopia perché la sua fragranza deve letteralmente invadere la casa per fare pulizia, scacciandovi gli insetti, quindi poi deve penetrare nei muri delle altre camere, tra gli spazi che le porte e le finestre costruite non con arguta precisione lasciano aperti.

Che facciano apposta a costruirle così per lasciarlo passare? Credo di no. Se le costruissero con più precisione e quindi senza spifferi almeno l’umidità della stagione delle piogge non entrerebbe in casa. E il venticello fresco durante la stagione secca che mi piace tanto? No, neanche quello entrerebbe. Ma allora fanno apposta! Sono confuso… uno scienziato, ricordo, diceva: “Nella ricerca di una soluzione a un problema complesso, spesso la soluzione esatta tende ad essere quella più banale”. Sì, allora le porte e le finestre sono studiate per lasciarsi inebriare da certi profumi.

Io appena svegliato però vado diretto in cucina; il caffè a stomaco vuoto mi fa male il fegato, non lo sopporto. Zeritu mi ha comprato il pane e le uova, poi è corsa a sistemare la sua bottega: fa la parrucchiera lei. Il pane lo ha comprato al kebelè, unico posto dove lo trovi fresco ancora a 2 birr. Il kebelè fu fondato nel 1975 dal governo comunista, il Derg, e corrisponde a un mini centro amministrativo che è presente in ogni quartiere di almeno 2-300 famiglie e da cui si dividono gli alimenti e non solo. Ci vuole la tessera per certe cose, esattamente com’era nella Russia sovietica e a Cuba ancora oggi. Ogni tanto mi chiedo come possano esserci ancora tante forme di socialismo in una città così capitalistica come Addis Abeba.

Le uova invece, rigorosamente habesha e non ferenji, costano oggi 6.5 birr. Un sacco rispetto al passo. Quelle di galline allevate in casa sono le habesha, le più gustose, dove il tuorlo è rosso incandescente; le altre si chiamano ferenji, “straniere”, ossia prodotte con l’ausilio dell’incubatrice portata da chissà chi e chissà quando. In Etiopia, con l’effetto dell’aumento della richiesta di uova negli ultimi decenni, è aumentata la produzione e quindi sono più facili da trovare al mercato quelle incubate, oltre che a costare di meno. L’aumento della produzione è dovuta alla crescita economica, penso ad Addis Abeba in primis. Gli hotel crescono come funghi nei boschi trentini, le pasticcerie pure, e a loro vanno bene quelle che costano di meno.

Io comunque guardo Zeritu, la mia dolce vicina di stanza, e la ringrazio con gli occhi. Ci capiamo al volo io e lei; se vado via la mattina presto senza mangiare mi tiene il muso quando rientro la sera. Non vedere quei dentini – disposti armoniosamente in ordine sparso – che si ritrova è un peccato. E poi io so, e lei sa che io lo so, che se mangio lei è contenta. C’è un accordo tra di noi non scritto, nemmeno verbale, ma che vale come un contratto timbrato da un tribunale e firmato da un giudice; il suo pensiero si riassume più o meno così: “per farmi contenta e non farmi preoccupare sai che devi mangiare”. Sono bastate poche sue smorfie i primi giorni che ci siamo conosciuti a sottoscriverlo.

Accendo il vecchissimo fornellino elettrico, a cui ogni tanto bisogna ricollegare i fili della resistenza che si spezzano per l’usura. Se fosse un’automobile sarebbe una Fiat 750; se non te ne intendi di meccanica meglio se usi un’auto più moderna, altrimenti prima o poi qualche guasto imprevisto ti capiterà. Ci appoggio la padella e aggiungo un goccio d’olio. E’ di importazione, nonostante campi di girasoli ne abbia visti parecchi girando l’Etiopia; il costo è 95 birr al litro, il triplo rispetto all’Europa. Mica poco! Per questo va dosato e se Zeri è in zona lo mette lei. Devo dire la verità, qui le donne hanno geneticamente il senso della responsabilità, del risparmio, del sostenere la famiglia. E’ un altruismo genetico, tramandato da madre a figlia nei secoli. Cose che non si imparano dall’oggi al domani.

Nel frattempo, inizio buffamente a tagliare le cipolle che saranno le prime ad andare in pentola; di solito la mattina ho bisogno di tempo per collegare la testa con i movimenti meccanici di routine che compio e quindi non mi ricordo mai il verso da cui devo iniziare a tagliare la cipolla; il risultato è che ci metto il doppio di quanto ci metterebbe Zeritu. In più agli occhi di una qualunque etiope come lei che taglia cipolle da quando ha 4 anni per 3 volte al giorno faccio pisciare dalle risate. In fondo mi diverte essere preso in giro da una risata così spontanea e divertita. Cerco sempre di migliorarmi, sia chiaro. Ma la dimestichezza che ho con le cipolle non potrà mai essere la sua; io non ho un rapporto così profondo e duraturo come lei con questi bulbi… che ci posso fare?

Poi viene la volta dell’aglio, più facile però. Ho un trita-aglio meccanico, tre o quattro schiacciate ed è fatta. Anche l’aglio sta aumentando molto di prezzo, sacrilegio in un paese dove è la medicina più usata. Poi torno al coltello e tagliuzzo il peperoncino, altrimenti mi guardano tutti male qui; come puoi fare un “enqulal ferfer”, la frittata etiope, senza il gusto piccante del peperoncino verde? Sembra che non abbia senso per loro. Che non sia contemplato sgarrare di un minimo dalla ricetta standard tradizionale. E quindi vabbè, aggiungiamolo dai, insieme a qualche pezzo di pomodoro fresco. Rispettiamo le culture altrui. Altrimenti sei sempre visto come un alieno qui.

Finalmente preparo questa frittatina in due e due quattro; aggiungo il sale dalla dancalia e me la mangio col pane fresco. Wow… una volta che cominci la colazione salata ti dimentichi del caffelatte inzuccherato e dei biscotti. La colazione qui è considerata più importante del pranzo; si sposa con il ritmo africano più classico di “vivere il presente” ed è per questo che si mangia bene la mattina. Che ne sappiamo di come arriviamo al pranzo?

Prendo le mie benedizioni dalla padrona di casa: “be selam wal, Egziabher kante gar yhun”, “passa una buona giornata, il Signore sia con te”, al quale io rispondo con un gentile: “amen amen, ke hulachn gar” ovvero “amen, amen, con tutti noi” e poi sono libero di partire.

La mia bici la appoggio ogni sera alla cuccia di Kuzi, il nostro cane che prende il nome da un attore di una soap opera turca doppiata in amarico che ogni casalinga etiope segue voracemente, Kana. Io non la seguo invece, i mille imprevisti che mi capitano in ogni giornata qui in Etiopia mi fanno già sentire parte di una soap opera, di quelle che non conoscono fine tipo “Un posto al sole” che seguivo ogni sera da bambino.

Kuzi ovviamente da buon cane manifesta il suo affetto nei miei confronti la sera prima pisciandomi su entrambe le ruote della bici, una non basta. Vuole che me ne accorga, è logico. Finché non imparerà a urinare sulla sella va bene così in fondo, apprezzo questa naturalezza delle cose così come sono.

Poi uscendo a voce alto grido un saluto per Zeritu, guardando il cielo perché non so dove sia finita nel frattempo; se mi sente bene, se no pace. Lei sa che lo faccio sempre, le basta questo. A questo punto posso partire, i riti mattutini li ho rispettati tutti. Che buffo questo paese, sarà per questo che lo amo.

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