Non esiste epoca che non conosca conflitti, ma è indubbio che alcune epoche si trovino a dover fare i conti più di altre con le conseguenze di conflitti che il potere costituito ha ignorato nel tempo, spesso esercitando un sordo ribaltamento di responsabilità nei confronti dei dissidenti. Le tensioni sociali che stiamo attraversando sembrano metterci di fronte a una sfida percettiva: a seconda della prospettiva da cui si guarda, si ha l’impressione che il potere e il privilegio tendano a concepirsi come collettività, stanca di dover subire le recriminazioni delle individualità (leggasi delle minoranze) che si percepiscono oppresse. Dal canto loro quelle stesse individualità vivono collettivamente la propria condizione, e denunciano l’oppressione subita da un sistema che viene percepito come un’entità unica, individuale appunto.

A proposito del delicato equilibrio tra individuo e collettività, nel 1998 il teorico dell’apprendimento Etienne Wenger ha scritto: “La mia analisi della formazione sociale delle identità non si basa su un assunto di accordo o di conflitto. […] non intendo dire che non ci sia mai nessuna tensione o nessun conflitto tra le risorse e le esigenze dei gruppi e le aspirazioni degli individui. […] Per ogni caso in cui i conflitti individuali creano discordia, si può trovare un altro caso in cui la pace sociale dipende dalla disponibilità di alcuni individui a prendere posizione contro la meschinità delle loro comunità”.

Nei suoi ottant’anni di esistenza fittizia, l’icona pop di Capitan America ha rappresentato nel suo piccolo una parabola nazional popolare di questa apparente dicotomia: da una parte c’era la sua estetica naif, figlia di una forte identità nazionale e politica che si è imposta prepotentemente a livello mondiale nel secondo Novecento, e dall’altra, a livello contenutistico, una sorta di tensione proattiva consapevole delle contraddizioni interne al sistema che rappresenta.

Nei fumetti, ogni volta che una forma di potere normativo e oppressivo ha provato a fare di Capitan America il suo simbolo e il suo burattino, questi si è sempre ribellato, denunciando le contraddizioni del proprio Paese, arrivando in alcuni casi a rinunciare alle caratteristiche stelle e strisce. Conseguentemente, anche al cinema abbiamo visto il personaggio opporsi all’ordine costituito in ben due pellicole, Captain America: The Winter Soldier e Captain America: Civil War. Per intenderci, è probabile che Cap, nel mondo reale, ascolterebbe Bruce Springsteen e voterebbe Bernie Sanders.

La serie Disney+ The Falcon and the Winter Soldier, probabilmente uno dei migliori prodotti Marvel mai realizzati, riprende il filo della narrazione dalla scomparsa di Steve Rogers e si concentra, dunque, sulla complessa eredità del personaggio in un’era infinitamente più complessa dell’eredità stessa, affidandola ai suoi due compagni più stretti: l’amico di sempre Bucky Barnes (Sebastian Stan), reduce da una catabasi che lo ha visto burattino dei poteri costituiti opposti a quelli di Cap, e Falcon (Anthony Mackie), l’erede designato, un nero degli Stati del sud che cerca di rendersi utile alla sua comunità con la stessa solerzia con cui ha affrontato le invasioni di armate aliene nei film precedenti. Incerto se accettare la pesante eredità, Falcon se la vede sottrarre dal governo, che affida lo scudo a John Walker (Wyatt Russell), il prototipo del soldato bianco imbevuto di retorica patriottica, nonché incline a un uso spregiudicato della violenza.

Il sorgere di una cellula rivoluzionaria antinazionalista, i cui membri sono dotati di superpoteri simili a quelli di Cap, e l’inadeguatezza degli strumenti di Walker nella risoluzione del conflitto, costringeranno Bucky a fare pace coi propri demoni e ad accettare il suo passato oscuro, e Falcon a reclamare lo scudo, e con esso la possibilità di diventare un simbolo anche per le minoranze oppresse.

Il nuovo Capitan America non ha superpoteri acquisiti grazie a sieri miracolosi, ma vola (grazie all’upgrade tecnologico concessogli da Wakanda) ed è in grado di farsi forza dialogante, si rende disposto a comprendere le ragioni degli antagonisti fino all’ultimo. Porta in braccio il corpo dell’avversario caduto con lo stesso rispetto che si avrebbe per un alleato, rimprovera apertamente l’establishment per la sua disinvoltura nell’uso del termine terrorista e soprattutto per la sua distanza emotiva dal tessuto sociale su cui esercita potere decisionale, per la facilità con cui si nasconde dietro alla complessità della ragione di Stato.

Soprattutto, il nuovo Capitan America porta alla luce la storia di Isaiah Bradley, un soldato nero su cui era stato replicato con successo l’esperimento che aveva conferito i poteri a Steve Rogers, ma la cui storia era stata cancellata perché non poteva esistere un Capitan America nero. Sam Wilson, non più Falcon, chiama dunque per nome le ipocrisie della propria società ma ne rivendica l’appartenenza, restituendo il proprio posto nella storia anche a chi ha contribuito a fondarla con sudore, lacrime e sangue.

Pur trattandosi di un prodotto che risponde a logiche di intrattenimento, e che quindi spesso pecca di semplicismo nel raccontare dinamiche storico-sociali complesse dal punto di vista parziale di una potenza nazionalistica, The Falcon and the Winter Soldier getta il cuore oltre l’ostacolo, con la solita perfezione formale di ritmo e azione a cui i Marvel Studios hanno abituato il proprio pubblico. In particolare rimarrà impressa nella memoria l’immagine di John Walker, il Capitan America impostore, che impugna lo scudo insanguinato con lo sguardo da maniaco, come a voler simboleggiare la police brutality che continua a riempire le pagine di cronaca, e la sua inquietante retorica autoassolutoria.

Definire la serie un’opera politica sarebbe eccessivo, ma il tentativo degli autori è volenteroso, e aggiunge un tassello d’eccellenza all’ormai vastissimo mosaico dell’epopea Marvel.

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