Si chiama gasolio agricolo ed è la nuova frontiera del business mafioso, garantendo profitti elevati come gli stupefacenti ma rischi estremamente più bassi. Ne sono convinte le Direzioni distrettuali Antimafia di Lecce e Potenza al termine di un’inchiesta che ha portato all’arresto di 45 persone e coinvolge complessivamente un centinaio di persone. Un’indagine che, secondo gli inquirenti, ha consentito di confermare come il contrabbando di idrocarburi sia diventata una delle attività con le quali le organizzazioni criminali stanno macinando milioni e milioni di euro che poi vengono investiti in attività legali.

Sono stati il procuratore di Potenza Francesco Curcio e il procuratore di Lecce Leone De Castris a descrivere il funzionamento delle frodi messe in campo dall’alleanza di due clan mafiosi. Il primo faceva capo a Raffaele Diana, uomo ritenuto estremamente vicino ai Casalesi, che si era trasferito nella Valle del Diano, nel Basso Salernitano, dove aveva sostanzialmente colonizzato, dal punto di vista criminale, un luogo ancora vergine. Il secondo, invece, era guidato dal tarantino Michele Cicala, 41enne che durante un lungo periodo di detenzione aveva affinato le proprie conoscenze e le proprie competenze e, una volta scarcerato, aveva ripreso le fila del suo clan facendogli compiere un importante salto verso l’imprenditoria criminale.

La loro alleanza era fondata sul contrabbando di combustili agricoli: prodotti che sono sottoposti a una bassa imposizione di accise per favorire le imprese del settore, ma che in realtà venivano rivenduti come normale carburante permettendo di incassare milioni e milioni di euro. “Se vengo fermato con un carico di droga – ha chiarito Curcio – corro un rischio particolarmente alto, ma se vengo fermato a un controllo con il carburante, posso incorrere in una sanzione amministrativa”. Minimo sforzo, massimo guadagno insomma. Per i magistrati il volume d’affari si aggirava intorno ai 30 milioni di euro all’anno. Una montagna di denaro che aveva consentito agli indagati di studiare una serie di meccanismi per eludere i controlli.

Il più ingegnoso era un sistema montato sui tir che trasportavano il carburante: un semplice pulsante posizionato sulla plancia della motrice permetteva, in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, di azionare un sistema che iniettando una sostanza nel carburante cambiava il colore per ingannare gli investigatori. Le indagini della Guardia di finanza di Taranto, guidate dal tenente colonnello Marco Antonucci e coordinate dal sostituto procuratore dell’Antimafia di Lecce Milto De Nozza, hanno permesso di accertare che quei guadagni ingenti avevano consentito al clan di Cicala di aggredire l’economia locale: bar, ristoranti, discoteche nelle quali venivano talvolta impiegati anche uomini delle forze dell’ordine o loro familiari per evitare controlli sgraditi. E quando uno di quei mezzi era stato bloccato dai finanzieri e condotto nella caserma di Taranto, gli indagati avevano pensato addirittura di farlo esplodere per evitare che venisse alla luce il dispositivo.

Sul versante lucano, invece, al centro delle indagini è finita la società Carburanti Petrullo che negli ultimi periodi aveva mostrato un “inspiegabile aumento esponenziale dei fatturati e degli investimenti”. Emergeva così dalle indagini che il rilevantissimo boom economico della ditta Petrullo coincideva con l’ingresso nelle compagini societarie della famiglia casertana dei Diana, i cui componenti avevano investito nell’impresa, in forma occulta, capitali provenienti secondo l’accusa da attività illecite. Raffaele Diana, in particolare, è sotto processo da tempo immemore per traffico di rifiuti con l’aggravante di aver agevolato del clan dei Casalesi.

“L’indagine – ha commentato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho – sviluppa uno dei campi in cui la criminalità mafiosa si sta sviluppando particolarmente, quello della commercializzazione dei carburanti”. Appena qualche giorno fa – ha ricordato il magistrato – “abbiamo parlato di come camorra e ‘ndrangheta si siano dedicati al commercio dei carburanti, quello in cui hanno impiegato i loro profitti, un reinvestimento dei ricavi di provenienza delittuosa. L’operazione di oggi è di grandissima importanza”. Il Tribunale del Riesame di Lecce ha accolto parzialmente i ricorsi della difesa: secondo i giudici cade l’accusa di associazione mafiosa per il gruppo di tarantini guidato secondo l’accusa da Michele Cicala. Restano in piedi le altre accuse tra cui quella di intestazione fittizia di beni.

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