Il teutonico Gianmario Ferramonti, già collaboratore del professor Miglio, imprenditore, è un tipo diretto, uno che non le manda a dire. Ex tesoriere della Lega Nord, già leader di un fantomatico Partito delle imprese, poi al servizio di Trump in Italia con le sue reti di associazioni organizzate per fare da sceneggiatura a The Donald, è un faccendiere di cui le nostre cronache sentono periodicamente la mancanza.

Di lui sono emerse e ottime “entrature” negli ambienti dei servizi italiani e stranieri, tanto da essere ritenuto da molti un uomo “legato alla Cia” o comunque ad ambienti dei servizi. Ci dice molto di lui il suo strettissimo rapporto con Iginio Di Mambro, personaggio di grandissimo attivismo massonico – non sappiamo se Michelangelo Di Mambro, uomo dell’Ufficio affari riservati di Federico Umberto D’Amato dai primi giorni del 1970, sia un suo congiunto. Erano così vicini che Ferramonti (che pure dice di sé “non sono un massone”) chiamava affettuosamente Di Mambro con l’appellativo di papà.

Un giorno lo chiamò al telefono davanti a me, ma Di Mambro rifiutò il contatto. Delusa, me ne feci una ragione, l’impresa non era facile: lì siamo ai vertici di un potere occulto che chissà come avrà pesato sulle vicende del nostro Paese e di cui Ferramonti è stato una pedina. Di Mambro aveva conosciuto Charles Poletti, colonnello dell’Oss (progenitrice della Cia) poi governatore dell’amministrazione militare alleata a Roma, in Sicilia, dove Poletti istituzionalizza la mafia come “consulente” e “interprete” del governo alleato americano e dove fin dal 1942, insieme ai primi agenti di Max Corvo e Vincent Scamporino, è ospitato da notabili mafiosi, come racconta quel pozzo di notizie che è Gli americani in Italia, il libro di Roberto Faenza e Marco Fini, pubblicato nel 1976 da Feltrinelli.

Circostanza che fa scrivere ad un noto giornalista: “Iginio Di Mambro, un pezzo grosso della massoneria, quello che preparò lo sbarco alleato in Sicilia” (Massimo Martinelli, Il Messaggero, 20 settembre 1996). Già dal 1947 affiliato alla Loggia Gabriele Ferretti, Di Mambro ha un curriculum massonico lunghissimo (spiegato dalla consulenza dell’esperta di massoneria Piera Amendola, già braccio destro di Tina Anselmi alla Commissione P2, per la Procura di Aosta dove si svolse l’inchiesta Phoney Money). In un carteggio molto complesso e molto importante degli anni Sessanta tra Di Mambro, il generale Giuseppe Pièche e Randolfo Pacciardi, i tre scrivono della necessità di preparare e addestrare gruppi di giovani.

Iginio aveva una speciale capacità: orientare chiunque andasse alla sua corte verso la giusta obbedienza massonica, in modo che i bisogni di ciascuno possano essere soddisfatti. E poi ha fatto parte di molteplici organizzazioni massoniche, a volte anche contemporaneamente, e con quelle di cui non faceva parte intratteneva fitti e qualificati rapporti. Era costantemente informato della vita interna delle più importanti famiglie massoniche operanti nel nostro paese; dalla sua agenda, sequestrata nell’ambito dell’inchiesta di Aosta, è emersa l’ampia gamma di contatti di cui disponeva – erano annotati gli appuntamenti con Franco Evangelisti e altre persone di varia caratura professionale o politica.

Forse per questo Gianmario Ferramonti lo aveva cercato quando tentava di far decollare il progetto leghista? Nelle agende di Di Mambro spuntò anche il nome di Roberto Napoli: i due avevano avuto una serie di appuntamenti. Napoli era l’agente del Sisde che gestì la fonte Achille da cui nacque il dossier sui magistrati di Milano. Antonio Di Pietro fu messo in guardia proprio da Gianmario Ferramonti. Storie dell’Italia di ieri e, forse, di oggi.

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