Molte aziende italiane, sulla cui identità al momento vige il “massimo riserbo”, sono già pronte per avviare la fase dell’infialamento e finitura dei vaccini anti-Covid. Altre invece hanno manifestato la disponibilità a produrre internamente anche i “bulk”, cioè il principio attivo e altri componenti dei sieri, perché già dotate dei necessari bioreattori e fermentatori. In questo caso, però, i tempi si allungano di 4-6 mesi. È quanto emerso nel corso del vertice che si è svolto al ministero dello Sviluppo economico tra il ministro Giancarlo Giorgetti, il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, il direttore generale Enrica Giorgetti, il direttore del Centro studi Carlo Riccini, il presidente dell’Aifa Giorgio Palù, il neocommissario per l’emergenza Paolo Figliuolo e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli.

È la seconda riunione nel giro di due settimane: l’obiettivo è capire se nei prossimi mesi sarà possibile produrre in Italia (in tutto o in parte) i vaccini anti-Covid, a patto che le case farmaceutiche concedano le proprie licenze. Il ministro Giorgetti, si legge in una nota, ha ribadito la volontà del governo di partecipare al progetto europeo per il rafforzamento della produzione di vaccini. È anche per questo che per giovedì è stato fissato un faccia a faccia con il commissario Ue all’Industria Thierry Breton. L’esecutivo, inoltre, punta a realizzare in Italia un polo per la ricerca di farmaci e vaccini con investimenti pubblici e privati.

Nel corso del vertice, durato più di un’ora, il ministro intanto ha dato mandato ai vari attori coinvolti di individuare le ditte in grado di partecipare alla produzione dei vaccini in conto terzi entro l’autunno 2021. “Si è deciso di mantenere il massimo riserbo sulle aziende che saranno coinvolte nel processo di verifica in corso”, spiegano fonti del Mise. Quel che è certo, al momento, è che tante sono già pronte a partecipare alla fase di infialamento e finitura dei sieri – la catena finale della produzione – mentre solo alcune avrebbero le capacità per produrre anche il principio attivo. Il nodo resta quello dei bioreattori e dei fermentatori, indispensabili per arrivare a produrre completamente in house i vaccini. Il governo, come già emerso nei giorni scorsi, è al lavoro per verificare la possibilità dell’uso di bioreattori esistenti o di produrli ex novo con l’intenzione di stanziare risorse e organizzare siti. Quelli possibili sono in Veneto, Lazio e Puglia. I tempi però non sono brevi: vanno dai 4 ai 12 mesi e, per il know how, 6 mesi.

Su questo è intervenuto sul Sole24Ore Luca Tosto, il presidente dell’Aipe (associazione che riunisce 115 aziende che producono apparecchi critici per le industrie dell’energia, chimico, petrolchimico e farmaceutico): “In condizioni normali, servirebbero mediamente sei mesi per riconvertire un impianto esistente, ma in questa situazione sarà sufficiente un mese e mezzo, mettendo a disposizione know-how e competenze trasversalmente all’interno dell’associazione, lavorando a testa bassa”. Il problema, però, è quello dei processi di validazione che a volte possono impiegare anche anni. Tosto propone quindi “una partnership pubblico-privato in grado di superare le tante formalità burocratiche” che pesano sull’avvio della produzione. In parallelo serve ovviamente che le aziende produttrici del vaccino, che detengono i brevetti, si affidino ad aziende in conto terzi. Una possibilità che l’ad di Astrazeneca, Lorenzo Wittum, ha intenzione di concretizzare: “Abbiamo bisogno di un partner capace di gestire questo processo di produzione, perché il trasferimento tecnologico non è assolutamente facile, e che abbia capacità di produzione di decine di milioni al mese”.

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