Continua la repressione dei militari in Myanmar. E continua con l’uso di proiettili sulla folla di manifestanti che ogni giorno continuano a manifestare contro il colpo di Stato del 1 febbraio scorso. Solo nella giornata di oggi sono state uccise dalle forze di sicurezza birmane 38 persone, il bollettino più sanguinoso dal giorno del golpe che ha portato anche all’arresto della leader Aung San Suu Kyi e del presidente Win Myint.

Gli agenti hanno hanno aperto il fuoco a Monywa, Mandalay e Myingyan, a volte senza il preavviso di lacrimogeni e proiettili di gomma, lasciando sul terreno 38 persone, come dichiarato dall’inviato dell’Onu, dopo un fine settimana nel quale si sono contati almeno 18 morti. Molto tesa la situazione anche nel nord di Yangon, nel quartiere di North Okkalapa: dalla zona, a cui le forze di sicurezza hanno vietato l’accesso ai media, sono stati diffusi video di guerriglia urbana, con barricate di fortuna date alle fiamme dalla polizia e foto di giovani uccisi con colpi alla testa.

Con il Paese chiuso ai giornalisti stranieri anche per l’emergenza Covid, che ora fa gioco alla giunta, sono proprio i messaggi che si riescono a pubblicare sui social l’unico mezzo con il quale i birmani chiedono aiuto alla comunità internazionale, definendo gli agenti dei “terroristi”. Circolano video di feriti trascinati dai poliziotti, oggi persino un filmato in cui si vedono agenti picchiare il personale medico fatto uscire da un’ambulanza che trasportava feriti.

Ai morti si aggiungono le centinaia di arresti, che hanno fatto salire il totale ad almeno 1.300, tra cui anche giornalisti, con almeno sei in detenzione per reati che vanno dalla diffusione di informazioni false all’incitamento di dipendenti pubblici alla disobbedienza. A Yangon è stato riportato che ai posti di blocco gli agenti costringono addirittura gli automobilisti a mostrare i loro post su Facebook: se vengono trovati messaggi che simpatizzano con le proteste, scatta l’arresto.

E nessun accordo sembra al momento all’orizzonte: il generale golpista Min Aung Hlaing si è dimostrato finora sordo a qualsiasi appello internazionale, sia sulla possibilità di fermare la violenza che di liberare i politici detenuti, a partire da Aung San Suu Kyi. Ieri un appello alla “riconciliazione costruttiva” da parte dell’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico (Asean) e un’esortazione per una “soluzione pacifica” da parte di Singapore sono caduti nel vuoto. Oggi è stato Papa Francesco a lanciare un appello al mondo “affinché le aspirazioni del popolo del Myanmar non siano soffocate dalla violenza”. Anche le minacce di sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione europea sono state finora inutili. E nonostante i morti e le sparatorie ormai quotidiane, la popolazione continua a scendere nelle strade.

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