“Il rischio di crimini atroci in Etiopia rimane alto e probabilmente peggiorerà” se il Paese non combatte con urgenza la violenza etnica, l’incitamento all’odio e le tensioni religiose: l’allarme è stato lanciato venerdì 5 febbraio da Alice Wairimu Nderitu, consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio, che ha ricevuto segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani nel Tigray. Allarme confermato dalle prime voci indipendenti che escono dalla regione.

“Una donna era in travaglio da sette giorni senza poter partorire. Si è salvata perché siamo riusciti a trasportarla a Mekele. Ho visto persone arrivare in ospedale in bicicletta trasportando un paziente a 30 chilometri di distanza.” A parlare è Albert Viñas, coordinatore dell’emergenza Tigray per Medici Senza Frontiere. È stato uno dei primi a entrare col suo staff nella regione settentrionale dell’Etiopia, dopo lo scoppio del conflitto il 4 novembre. La sua è una voce importante perché dall’inizio della guerra le comunicazioni sono interrotte: è difficilissimo ottenere informazioni indipendenti e verificabili e il poco che arriva è sempre a rischio manipolazione. Come la presunta strage di inizio anno in una chiesa copta, riportata da alcuni media: abbiamo contattato personalmente i ricercatori di Amnesty International sul campo e ad oggi la notizia appare destituita di fondamento.

“Dopo diversi tentativi – racconta Viñas – sono finalmente entrato nella capitale del Tigray, Mekele, con la prima squadra di MSF il 16 dicembre”: dopo settimane di insistenza delle Nazioni Unite, a metà dicembre i primi convogli umanitari sono potuti entrare nel Tigray. “Gli sforzi sono stati enormi. È una sfida incredibile senza telefono o internet. Non c’erano voli per Mekele e abbiamo dovuto spostare tutto di quasi mille chilometri su strada. Non si potevano neanche fare trasferimenti di denaro perché le banche erano tutte chiuse”.

Da Mekele, l’équipe ha raggiunto Adigrat, la seconda città più popolosa del Tigray. “La situazione era molto tesa e l’ospedale in pessime condizioni. Alcuni pazienti malnutriti”. “Il 27 dicembre siamo entrati nelle città di Adwa e Axum. Lì niente elettricità e niente acqua. Tutte le medicine erano state rubate dall’ospedale e mobili e attrezzature erano rotti”. Non ci sono grandi campi profughi: la maggior parte degli sfollati si è rifugiata presso parenti e amici, quindi in molte case ora vivono da 20 a 35 persone stipate assieme. “Abbiamo visto una popolazione rinchiusa nelle case e che vive in una grande paura. Tutti ci davano fogli con numeri di telefono e ci chiedevano di trasmettere messaggi alle loro famiglie”.

La preoccupazione maggiore riguarda le zone rurali, difficilmente raggiungibili. Ampie zone del Tigray sono montuose, con strade tortuose che si inerpicano da 2mila a 3mila metri. Alla popolazione che vive qui si sono aggiunti gli sfollati.

E proprio da queste aspre montagne giunge una seconda voce, resa nota nei giorni scorsi dalla World Peace Foundation: si tratta di Mulugeta Gebrehiwot Berhe, ex alto funzionario, raggiunto al telefono in una località segreta. Mulugeta è stato membro del TPLF, il partito una volta padrone indiscusso dell’Etiopia e ora considerato un “ribelle” da domare dal nuovo potere centrale del premier Abyi Ahmed; prese parte alla guerriglia dal 1975 al 1991, ricoprì poi incarichi d’alto livello nel governo fino al 2000, in seguito fondò l’Istituto per gli studi su pace e sicurezza all’Università di Addis Abeba. Mulugeta era a Mekele quando scoppiò la guerra e da lì si rifugiò in montagna. “Hanno distrutto il Tigray. Hanno letteralmente distrutto tutto il benessere costruito in trent’anni, bruciato scuole, cliniche, saccheggiato ogni singola casa. E uccidono chiunque incontrino. Nel piccolo villaggio in cui ero ieri hanno ucciso 21 persone, di cui sette preti”. Racconta che quello al Tigray fu un assalto coordinato di esercito etiope, forze speciali Amhara e Oromo, ma anche 42 divisioni eritree e persino forze speciali somale ed emiratine. “Sono stati gli Emirati a disarmare davvero il Tigray” sostiene Mulugeta. Le sue parole confermano che sul suolo etiope starebbero combattendo forze armate straniere e che non si tratterebbe affatto di un “affare interno”, come si giustifica il premier Abyi.

Non è un caso che il presidente statunitense Joe Biden abbia chiesto con forza all’esercito eritreo di ritirarsi immediatamente dal suolo etiope. Il Dipartimento di Stato Usa parla di “report credibili” sul coinvolgimento di militari eritrei in ripetute violazioni dei diritti umani, incluse violenze sessuali e assalti a campi profughi.

Se sul coinvolgimento degli Emirati risultano solo sporadiche voci, forti sospetti esistono sulla presenza di truppe somale: accese proteste hanno scosso Mogadiscio, dopo che alcune famiglie hanno ricevuto un indennizzo di 10mila dollari per la morte dei figli, scoprendo solo in quel momento che i giovani erano stati inviati contro la loro volontà a combattere in Eritrea. I giovani mandati in Eritrea sarebbero un migliaio e in Somalia molti sospettano che in realtà siano stati impiegati per combattere nel Tigray. La testimonianza di Mulugeta lo confermerebbe.

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