“Vedi che non ho dormito…vedi, venti giorni… vedi che ti ho sempre rispettato”, così parla un uomo mentre si mette in ginocchio al cospetto di Calogero Di Caro, capo mandamento di Canicattì, per implorare pietà per sé e per sua moglie, dopo un furto non “autorizzato” di 500 euro. È la fotografia dei Ros che meglio restituisce il potere mafioso esercitato sul territorio dove all’assenza dello Stato, l’organizzazione mafiosa risponde con chiarezza: “Compà, compà, a presenza è potenza”, si sente in una delle tante intercettazioni. Una mafia “pericolosa”, infiltrata nelle istituzioni, capace di analisi sul territorio e di risorgere. È questo che emerge dall’operazione antimafia della procura di Palermo, guidata da Francesco Lo Voi che ieri ha colpito i mandamenti mafiosi nel cuore della Sicilia. E che ha svelato anche la partecipazione di uomini dello Stato: “Come un joystick che può colpire questo o quel nemico”, così la mafia si serve di poliziotti per indirizzare indagini giudiziarie a favore di quel gruppo mafioso e contro quell’altro. È uno dei tanti aspetti messo in luce nelle prime pagine della lunga ordinanza firmata dai sostituti Claudio Camilleri, Gianluca De Leo, Calogero Ferrara, e dall’aggiunto Paolo Guido che così sottolineano “la pericolosità di Cosa nostra, capace di incunearsi nei gangli vitali dell’Amministrazione della giustizia”.

Pericolosa e vitale, tanto da potersi rigenerare. Le indagini hanno infatti svelato la ricostituzione della Stidda, ovvero la branca mafiosa ad Agrigento e Caltanissetta e la presenza degli Stiddari Santo Rinallo e Antonio Gallea, quest’ultimo condannato per l’omicidio del giudice Rosario Livatino. Entrambi in grado di riformare la Stidda, nonostante le detenzioni: “Dato sconcertante era che entrambi, detenuti da lungo tempo, e ammessi … a licenze premio (il Gallea) ed a regime della semilibertà (il Rinallo), approfittavano proprio dei periodi trascorsi fuori dal carcere per intrattenere riunioni e programmare strategie criminali”.

L’operazione della procura di Palermo ha colpito gli esponenti dei vari mandamenti del cuore della Sicilia, da Canicattì a Campobello, da Ravanusa a Favara, da Trapani a Palermo. Sono 23 i fermi disposti dal gip in cima ai quali spicca il nome di Matteo Messina Denaro, ancora latitante dal 1993. Attorno a lui la procura siciliana ridisegna la mappa degli interessi, del controllo, per esempio, del lucroso settore economico delle transazioni per la vendita di uva e altri prodotti ortofrutticoli da parte di produttori operanti nei territori delle famiglie di Canicattì, Ravanusa e Campobello di Licata. Grazie alle indagini dei Ros è emersa “una eccezionale ed ininterrotta sequenza di riunioni svoltesi per un arco temporale di circa due anni e tutte intrattenute tra esponenti di vertice di cosa nostra, anche appartenenti a province diverse”.

Tra questi anche un ispettore, Filippo Pitruzzella e un assistente capo di polizia, Giuseppe D’Andrea. Entrambi frequentatori dello studio dell’avvocata Angela Porcello, diventato luogo eletto di summit mafiosi. Proprio in via Livatino a Canicattì, indirizzo dello studio legale, Porcello, legata da una relazione con Giancarlo Buggea, uomo d’onore della famiglia di Canicattì, riceveva gli esponenti dei vari mandamenti, e poliziotti. Tra una riunione e l’altra andava anche a fare visita in carcere a detenuti al 41 bis e li metteva in comunicazione tra loro, avvalendosi delle prerogative riservate al difensore, passando dal ruolo di avvocata a quello di vero e proprio punto di riferimento mafioso. In via Livatino, al suo cospetto, sfilavano i capi mandamento: Luigi Boncorli, capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), Giuseppe Sicilia, capo della famiglia di Favara, Giovanni Lauria, capo della famiglia mafiosa di Licata, Simone Castello, uomo d’onore di Villabate, già fedelissimo di Bernardo Provenzano, Antonino Chiazza (esponente di vertice della rinata stidda).

Ma nella via che commemora il giudice ucciso dalla mafia sfilano anche i poliziotti: “Come un cancro nel corpo dello Stato – scrivono i pm – l’infiltrazione mafiosa realizzata grazie alla condotta dell’Ispettore Pitruzzella genera metastasi diffuse e devastanti, vanificando investigazioni in corso, inibendo la genesi di altre”. Questo fa l’ispettore – secondo quanto risulta dalle indagini dei carabinieri dei Ros guidati da Lucio Arcidiacono – sottoscrivendo quattro relazioni per indirizzare le indagini verso il gruppo Chiazza, avverso a quello di Buggea, fidanzato della legale con la quale Pitruzzella si era incontrato in varie occasioni tutte registrate dal lavoro certosino degli investigatori.

Poco dopo, il risultato di quell’incontro arrivava fino alla Dda di Palermo, nel tentativo di indirizzare le indagini antimafia: “Il 21 agosto perveniva a quest’Ufficio un’annotazione a firma del Dirigente della squadra Mobile di Agrigento – si legge nell’ordinanza della procura di Palermo – con allegate ben quattro relazioni di servizio dal commissariato di Canicattì e sottoscritte giustappunto dall’Ispettore della Polizia di Stato Filippo Pitruzzella”. Nelle varie relazioni erano riportate le “vicende relative all’infiltrazione mafiosa nel settore delle mediazioni e alla “scalata” del gruppo Chiazza che, come riferito nelle relazioni di servizio, con prepotenza guadagnava spazi nel settore delle “sensalie” anche nel territorio di Canicattì. E ciò avveniva appunto attraverso l’inconsapevole struttura centrale della Squadra Mobile di Agrigento per via dell’impulso e sollecitazione proprio dell’ispettore Pitruzzella”. Tutto dunque come deciso con Porcello. Era stata lei in uno degli incontri col poliziotto a definire Antonino Chiazza “una calamità per sé stesso e per il prossimo”, mentre Pitruzzella le rispondeva che aveva già affrontato l’argomento con altri esponenti e che senza esitare bisognava agire: “Se non si prende subito poi ti viene la bronchite, poi arriva l’acqua nei polmoni… – omissis – ma se il male non si elimina subito…… se non lo fermano ora, va a finire che poi accravacca a tutti!”. Quanto progettato pochi giorni prima nello studio della Porcello “si trasformava quindi in atti ufficiali di un procedimento penale e richieste di avvio di indagini formulate direttamente alla Dda di Palermo”.

Sono centinata di ore di intercettazioni registrate dai Ros, dalle quali emerge il profilo di una mafia con varie ramificazioni, con capacità di corruzione nel corpo dello Stato non solo tramite poliziotti conniventi ma anche all’interno delle carceri, dove la legale riesce a incontrare i propri clienti ristretti al 41 bis in modo da scambiarsi informazioni importanti per l’attività mafiosa: “All’interno degli istituti penitenziari (ivi compresi quelli ove vengono allocati i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis), nel corso della presente indagine sono stati registrati – in diverse occasioni e su più livelli – preoccupanti spazi di gravissima interazione fra detenuti, fra detenuti e l’esterno nonché fra detenuti e appartenenti alla polizia penitenziaria; interazione che l’attuale sistema penitenziario non è riuscito, in tali momenti, a evitare”. Un quadro che fa temere, secondo la procura palermitana, “danni collaterali”, ovvero una conseguente “sfiducia nelle forze dell’ordine, in un contesto territoriale in cui lo Stato fa estrema fatica a legittimarsi”. E gli esempi che possono ingenerare sfiducia non sono pochi: “Signor commissario una parola… questi qua sono due amici nostri”, così Giancarlo Buggea presenta, per esempio Giuseppe D’Andrea, assistente capo al commissariato di Canicattì, a Gregorio Lombardo e Roberto Plicato, così informando il poliziotto “che l’uomo d’onore Gregorio Lombardo era “un suo amico”, e dunque far capire al D’Andrea che non avrebbe dovuto segnalare la presenza contestuale di due pregiudicati mafiosi e l’oggetto dei loro dialoghi”.

Uno Stato dunque indebolito da un “cancro” interno, in un territorio immerso nella “miseria”: “Lo sa quando c’è miseria in un territorio può succedere di tutto e di più”. Così esordisce Giuseppe Falsone, storico capo della provincia di Agrigento, fedelissimo dell’ala corleonese, posto ai vertici di Cosa Nostra con l’appoggio di Bernardo Provenzano. Falsone è tra i 23 fermi di ieri, e quando viene intercettato è in carcere a Novara, dopo essere stato arrestato il 25 giugno del 2010 a Marsiglia, alla fine di una lunga latitanza. L’avvocata Porcello va a trovarlo in carcere, si presenta il 15 dicembre del 2018 come la fidanzata di Buggea, una notizia accolta da Falsone addirittura come “un regalo”. Così inizia il rapporto legale-cliente tra i due, che regalerà questa attenta analisi sociologica della Sicilia: “Avvocatessa siamo la Sicilia, è una terra desolata, una terra di miseria – spiega Falsone in un’altra intercettazione del 10 aprile 2019 – mentre una volta un pochettino anche se c’era la miseria, c’era… ora si formeranno situazioni di piccolo banditismo che saranno micidiali, questi nascono per natura, lei ha presente un carciofo, come si coltiva un carciofo? Quando uno dà una zappata e tira fuori il carciofo che spara sotto? Spara i carduna (i cardi, ndr). Per ogni carciofo 20 carduna e così è la cosa quando non c’è un buon senso, diciamo… Quando non c’è un buon senso e ragionevolezza, ognuno ragiona a conto suo, quando non c’è punto di riferimento. O si indirizza una società verso… o sennò ognuno se ne va per conto suo, ci vuole un minimo di organizzazione sociale, cu l’ava a fari? Chi lo deve fare? Chi se la deve prendere la briga di un’organizzazione sociale? Lo Stato dov’è? A noi altri c’hanno macellato, perché è vero che ci sono stato le cose brutte ma ci sono state anche le cose a favore della società, la vita è complessa le situazioni sono complesse non è che c’è niente da fare”. Una “vera e propria pagina di antologia mafiosa” scrivono i pm. Di certo un’analisi che rivela una conoscenza del territorio e una mafia in qualche modo capace di “leggere” il bisogno di “un’organizzazione sociale”, appunto. Quella che tenta di dare la mafia siciliana, ancora una volta fotografata nelle sue viscere dalle operazioni degli inquirenti, come viva e vegeta, addirittura intenta a rifondare la Stidda, soprattutto sempre presente. Capace di sostituirsi allo Stato. Mettendo in ginocchio il territorio.

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