Una scena da film. Moglie, marito e due figlie piccole in attesa dell’esito del controllo documentale al gabbiotto delle autorità di polizia doganale dell’aeroporto internazionale del Cairo. È il 3 novembre 2020, i televisori dello scalo irradiano immagini sulle Presidenziali negli Stati Uniti, un’elezione vitale anche per le sorti dell’Egitto. La famiglia sta uscendo dal Paese per una vacanza all’estero. Lo sguardo torvo dell’agente saetta tra le carte, i documenti e i volti furbescamente rilassati del nucleo familiare. Istanti che sembrano non finire mai. La pratica va per le lunghe, l’addetto chiama qualcuno al telefono e poco dopo la famiglia viene fatta entrare in una stanza dove un ufficiale torna ad analizzare le carte e fare altre telefonate. La coppia di coniugi non perde la calma e dopo circa un quarto d’ora arriva il tanto atteso via libera. I genitori e le bambine accedono al terminal dei voli internazionali in attesa dell’aereo che li avrebbe portati poi a Beirut, in Libano, dopo circa un’ora e mezzo di trasvolata. In realtà quella famiglia ha appena lasciato l’Egitto per non tornare più, almeno fino a quando il regime alla guida del Paese sarà quello del presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Adesso quei momenti di altissima tensione Basma Mostafa li può raccontare. Da quel giorno per lei e per la sua famiglia ha avuto inizio la seconda fase della vita, con tutte le conseguenze che una fuga al buio può comportare. Restare in Egitto non era più possibile. Basma, apprezzata giornalista, era diventata scomoda e invisa al regime e pochi giorni prima era uscita dalla prigione femminile di al-Qanater. Era la terza volta che le accadeva di essere arrestata a causa del suo lavoro.

La prima, nel marzo 2016, quando il regime ha aperto un file nei suoi confronti, era direttamente correlata al suo scoop giornalistico legato alla morte di Giulio Regeni. Pochi giorni prima il Ministero dell’Interno aveva dichiarato risolto il caso del ricercatore di Fiumicello: si era trattato di una rapina finita male. I documenti di Regeni erano stati trovati nella casa di una famiglia di ‘criminali’ alla periferia della capitale e durante un blitz per le strade del Cairo le forze di sicurezza avevano aperto il fuoco sterminando cinque persone a bordo di un minibus, tutti considerati membri della banda. Il regime aveva appena prodotto ‘la madre di tutti i depistaggi’, ad oggi considerata la versione investigativa ufficiale dei pm egiziani dietro il caso Regeni.

Non aveva però fatto i conti con Basma Mostafa: “Il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni fu uno choc per tutti, ma io non seguii il caso per la testata con cui lavoravo all’epoca (Dot Masr, ndr) – racconta a Ilfattoquotidiano.it – Poche settimane dopo uscì la notizia della mattanza e della svolta nel caso Regeni. Qualcosa non mi convinceva, ebbi subito la sensazione che si trattasse di una fake news prodotta ad arte. I media di regime fecero da cassa di risonanza e l’immagine di quella famiglia di presunti criminali fu calpestata senza pietà. Erano considerati feccia e nessuno li avrebbe ascoltati. I volti degli assassini di Giulio sbattuti in prima pagina. Questa esasperazione dei toni mi spinse ad andare a fondo e investigare su un caso a cui nessuno dei miei colleghi sembrava interessato. Anche per loro la vicenda era risolta. La National Security aveva scelto di incriminare povera gente, capri espiatori ideali per coprire un omicidio brutale. Nessuno se li sarebbe filati, erano i colpevoli giusti al momento giusto e io questo non lo potevo accettare”.

Basma è una giornalista molto battagliera, al punto da diventare anche scomoda. La sua esposizione dei fatti è molto coinvolgente: “Così sono andata dai genitori, dalle mogli e dalle figlie delle vittime, ho raccolto le loro testimonianze sui fatti, le loro storie e le loro rivendicazioni in un video reportage – aggiunge – La mia inchiesta, già allora, provava l’innocenza di quelle persone. Non è stato facile pubblicarla, l’editore del sito giornalistico, molto vicino alle posizioni governative, fece di tutto per non farla uscire e mi decurtò anche lo stipendio. La cosa sfuggì di mano quando il caporedattore, senza dire nulla, decise che si trattava di un documento giornalisticamente di primo piano e quindi andava pubblicato. La reazione del proprietario della testata fu durissima e io ne pagai le conseguenze. Con me anche alcune delle familiari dei morti, arrestate e incarcerate per mesi e poi, una volta fuori, ripetutamente minacciate di nuove ritorsioni se non avessero tenuto la bocca chiusa”.

Il reportage, nonostante i disperati e inutili tentativi dell’editore di cancellarlo dalla rete, fece scalpore in Egitto e di riflesso, ovviamente, anche in Italia. Quelle donne raccontarono un’altra verità rispetto alla versione della polizia: sulla dinamica dei fatti, la sparatoria in primis, sui documenti ritrovati e soprattutto sul curriculum criminale delle vittime. Il regime decise di passare all’azione: “Fu l’editore, trasferendomi dal settore investigativo ai fatti di cronaca, a buttarmi tra le braccia della legge poche settimane più tardi, il 25 aprile 2016 – racconta Mostafa – Mi diede l’incarico di seguire le proteste in piazza Tahrir per la sorte delle isole di Tiran e Sanafir (in quei mesi il presidente al-Sisi aveva trovato l’accordo per la vendita all’Arabia Saudita delle due isole sul mar Rosso, suscitando violente reazioni nel Paese, ndr) Dopo cinque minuti dal mio arrivo in piazza sono stata arrestata, portata in una stazione di polizia, interrogata e minacciata, prima del rilascio a notte fonda. Non dimenticherò quelle 10 ore passate lì dentro, fu un avvertimento. Se volevo andare avanti e vivere serena avrei dovuto cambiare registro. Per prima cosa mi dimisi dal giornale per trovare altre collaborazioni”.

La giornalista egiziana aveva svelato un doppio crimine: il depistaggio e la strage di innocenti. Eppure oggi, a quasi cinque anni di distanza, il regime tiene botta e considera quei cinque uomini massacrati senza scrupoli gli autori del rapimento, il 25 gennaio 2016, delle torture e dell’assassinio di Giulio Regeni: “Ritengo la cosa molto strana perché l’ufficio della Procura generale, pochi giorni dopo i fatti e la mia inchiesta, diffuse un documento ufficiale in cui affermava che i cinque uomini uccisi non avevano nulla a che vedere con il caso Regeni. Poi quel documento è sparito evidentemente o è stato modificato visto che di recente la stessa Procura egiziana, in risposta all’indagine svolta dall’Italia, ha affermato che l’inchiesta di Roma non poggia su basi solide e quindi i colpevoli restano i cinque morti che non possono difendersi. È assolutamente possibile che chi ha rapito, torturato e ucciso Giulio sia lo stesso che ha deciso di ordinare il blitz nei confronti di quei poveretti. In fondo ancora oggi, specie dopo l’ufficializzazione dell’accusa e la richiesta del processo nei confronti dei quattro membri dell’Nsa da parte della Procura di Roma, il regime continua a tenere d’occhio le loro famiglie, intimando di non rilasciare più alcun commento, impaurendole”.

Il 15 gennaio scorso Giulio Regeni avrebbe compiuto 33 anni: “Lo so e ho pensato a lui e alla sua famiglia – riflette la giornalista egiziana – Portando avanti la mia indagine e pubblicandola spero di aver contribuito alla verità dietro la sua morte. In questi anni ho provato più volte a mettermi in contatto con i suoi genitori, senza fortuna, ma spero di riuscirci presto”. Nel frattempo Basma Mostafa deve pensare alla sua famiglia e a un futuro in sicurezza. Da qui la scelta di lasciare l’Egitto assieme al marito Karim, avvocato e attivista, e le due figlie e trasferirsi in Libano. Dal 7 gennaio scorso sono in lockdown a seguito della misura presa dal governo libanese per limitare la diffusione del coronavirus: “Non potevamo più restare in Egitto, così con mio marito abbiamo deciso di fare questo passo, consci dei rischi che avremmo potuto correre. Restando ne avremmo sicuramente corsi degli altri. Avevamo paura per le nostre figlie, siamo scappati soprattutto per loro. Dopo essere stata rilasciata, l’8 ottobre scorso, non avevamo neanche ipotizzato la fuga, poi nelle settimane seguenti la polizia ci ha fatto visita un paio di volte e la situazione rischiava di diventare insostenibile”.

Qui la giornalista entra nella seconda fase della nostra chiacchierata, ossia il presente: “Il 2020 è stato un anno difficile. A inizio marzo, nei primi giorni della pandemia, sono stata fermata davanti al ministero della Salute mentre svolgevo un servizio giornalistico. È successa più o meno la stessa cosa di quattro anni prima in piazza Tahrir. Portata in una stazione di polizia, interrogata, minacciata e poi rilasciata all’alba del giorno dopo. Il regime non gradiva e non gradisce che si mettano in evidenza i suoi limiti nell’affrontare la pandemia. Gli stessi medici che denunciano carenze di ospedali, protezioni e cure vengono arrestati. Poi c’è stato l’ultimo arresto, il più allucinante dei tre. Il 5 ottobre scorso sono andata a Luxor per seguire un caso, anche questo scomodo al regime (la morte di un uomo per mano della polizia dopo una protesta, ndr). Sono stata seguita per tutta la mattinata da agenti in borghese poi avvicinata e fermata. Mi hanno chiesto i documenti, fatto delle domande e se ne sono andati. Poco dopo è arrivata una pattuglia della polizia che mi ha caricato a bordo di un mezzo e portata via. In serata ero di nuovo nella prigione femminile di al-Qanater dove sono rimasta per quattro giorni. È stata un’esperienza durissima. Quanto meno ho potuto incontrare ed abbracciare Esraa Abdel Fattah, una grande amica e anima della rivoluzione di piazza Tahrir nel 2011, una delle tante attiviste per i diritti umani imprigionate dal regime in questi anni”.

Al netto dei limiti provocati dall’emergenza pandemica, Basma e i suoi cari stanno cercando di rifarsi una vita. Sia lei che il marito lavorano nei rispettivi ambiti, giornalismo e attivismo legale, per tirare avanti, le figlie andranno presto a scuola: “È stata la scelta giusta. Avevo bisogno di cambiare aria, di dedicarmi allo studio, migliorare le mie conoscenze nel campo del giornalismo e di vivere in maniera serena. In Egitto, al Cairo, ho il resto della famiglia che spero di poter riabbracciare presto. Certo non accadrà subito, almeno con questa situazione, fino a quando i diritti umani non saranno tutelati. Se rientrassi in patria verrei arrestata all’istante”.

In pratica la stessa sorte di Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto internazionale del Cairo di ritorno da Bologna. Tra una settimana la sua detenzione, rinnovata periodicamente da un anno a questa parte, sarà di nuovo affrontata in un’udienza: “Patrick è una persona speciale – aggiunge Mostafa – un amico. Sempre sorridente, gentile e collaborativo. Ci siamo incrociati spesso in passato quando lui lavorava all’Eipr (l’Iniziativa egiziana per i diritti personali, ong finita di recente nel mirino della National Security, ndr). Si è sempre dedicato ai più deboli e ha combattuto a favore dei diritti umani calpestati in Egitto. La sua opinione e la sua critica al regime hanno fatto sì che fosse imprigionato. Il fiato dell’opinione pubblica italiana sul collo del regime può essere decisivo. Spero davvero che presto possa uscire dal carcere e tornare ai suoi studi in Italia”.

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