Ex esponenti del partito di Silvio Berlusconi, amiche di Totò Cuffaro e pure elette con il Movimento 5 stelle. Sono i senatori su cui conta Matteo Renzi per una missione ad alto rischio: far cadere il governo di Giuseppe Conte. Di cinque o sei di loro si chiacchiera da tempo. Da quasi un anno, e cioè addirittura da prima della pandemia, vengono indicati come gli esponenti di Italia viva pronti a tornare nel Pd. O a entrarci per la prima volta. Era il febbraio del 2020 e Il Corriere della Sera raccontava di un tentativo messo in campo da Dario Franceschini per sfilare a Renzi una manciata di voti per mettere in sicurezza il governo pure a Palazzo Madama. I diretti interessati si affrettarono a scrivere sui social una serie di mezze smentite. Pochi giorni dopo il coronavirus avrebbe inghiottito quelle chiacchiere.

Crisi al buio? – Retroscena che l’atteggiamento del leader d’Italia viva riporta ora nuovamente all’ordine del giorno, come racconta il Fatto Quotidiano. L’epidemia non è certo finita, ma Renzi sembra davvero intenzionato ad andare fino in fondo a una crisi potenzialmente catastrofica. Non solo per i fondamentali destini del Paese, che nei prossimi mesi dovrebbe misurarsi con una imponente campagna vaccinale e con una gigantesca opera di gestione dei fondi del Recovery. La crisi al buio aperta dall’ex segretario del Pd avrà un effetto anche sui destini, meno fondamentali, dei suoi 18 senatori. A sentire Renzi alla fine del governo Conte non seguirà il voto: probabile. Senza considerare che da fine luglio scatta il semestre bianco, cioè l’impossibilità per il presidente della Repubblica di sciogliere le Camere. Se ne riparlerebbe nella primavera del 2022, dopo l’elezione del successore di Sergio Mattarella.

Questione di numeri – È su questo che punta Renzi, per “portare una soluzione al Quirinale“, come il leader d’Italia viva definisce la creazione di una nuova maggioranza che sfratti Conte da Palazzo Chigi. Vorrebbe dire nuove consultazioni per individuare un nuovo governo, con nuovi ministri e un nuovo presidente del consiglio: un iter particolarmente laborioso. Anche per un consumato giocatore di poker come è Renzi, ormai orientato verso l’all-in: impossibile, allo stato, sapere che carte ha in mano. Più semplice, invece, sarebbe puntellare il governo Conte sfrattando dalla maggioranza lo stesso Renzi. È “la sfida” che secondo il leader d’Italia viva gli sarebbe stata lanciata dal capo dell’esecutivo. Una sfida che in ogni caso – con o senza dimissioni preventive del premier ed eventuale reincarico per un Conte ter – deve per forza passare dall’aula. Non da Montecitorio, dove la maggioranza è al momento salda, ma ovviamente da Palazzo Madama. È qui tornano di moda i nomi dei 5 o 6 renziani. Al Senato Italia viva può contare sulla carta su 18 voti. Con la sua defezione, all’alleanza che sostiene Conte (composta da Pd-M5s-Leu, più un pezzo del gruppo Misto e delle Autonomie) ne rimarrebbero 151. La maggioranza assoluta è fissata a 159 perché ai 315 senatori vanno aggiunti 2 senatori a vita su 6 che partecipano spesso ai lavori (sono Mario Monti ed Elena Cattaneo). Dunque senza i renziani mancherebbero solo otto voti.

Il precedente di Fli – Sono i cosiddetti responsabili, di cui negli ultimi giorni si è scritto e detto praticamente di tutto. Possono arrivare da Forza Italia, dal gruppo Misto, dal centrodestra. Ma potrebbero arrivare persino da Italia viva. Ma come? Il partito che tradisce il governo e scatena la crisi, poi la fa rientrare a causa del contro – tradimento di alcuni suoi esponenti? Esattamente. D’altra parte non sarebbe la prima volta: il 14 dicembre del 2010 la Camera respinse la mozione di sfiducia nei confronti del governo di Silvio Berlusconi con i voti determinati di due deputate di Futuro e Libertà, il movimento di Gianfranco Fini che quella sfiducia aveva sostenuto.

Due motivi (più uno) per non fare cadere il governo – Undici anni dopo è cambiato tutto e non è cambiato niente. Di sicuro i 18 senatori d’Italia viva non muoiono dalla voglia di tornare alle urne, come la stragrande maggioranza degli altri 297. Per due ottime regioni. La prima: tutti i sondaggi concordano nell’accreditare al piccolo partito di Renzi una percentuale compresa tra i due e i tre punti. Vorrebbe dire accommiatarsi dalla vita pubblica con due anni di anticipo sulla fine della legislatura. La seconda ragione è da estendere a tutto l’arco costituzionale: dal prossimo giro alla Camera e al Senato ci saranno 345 poltrone in meno: vuol dire che un parlamentare su tre dovrà rimanere a casa, comunque vadano le elezioni. A questi due motivi ne va sommato un terzo, il più nobile: le parole di Mattarella. Nel suo discorso di fine anno il capo dello Stato è stato chiaro: quello appena iniziato è un anno fondamentale per i destini del Paese. È un anno di “costruttori“, e chi invece pensa ad abbattere governi e maggioranze sta inseguendo “illusori interessi di parte“. Parole applaudite trasversalmente da tutte le forze politiche, con la sola Italia viva che con Ettore Rosato è stata costretta a specificare: “Nel discorso di Mattarella non c’è alcun passaggio che metta in discussione il nostro lavoro”.

La lista dei cinque – Chissà se anche gli altri renziani sono d’accordo con Rosato. O se invece a capodanno a qualcuno non siano siano fischiate le orecchie. Ecco perché sono tornati a circolare i nomi dei 5/6 renziani. Nel caso di una conta in aula potrebbero abbandonare Renzi e schierarsi ancora con la maggioranza. Un’ipotesi che neanche il politico di Rignano scarta a priori: “Non ho paura della libertà delle persone – ha detto al Messaggero – Se qualche parlamentare vorrà appoggiare il governo Conte perché convinto dalle parole del premier, bene. Penso che il premier sia sicuro dei suoi conti, altrimenti avrebbe scelto la strada del confronto politico prima di andare in aula”. Ma chi sono dunque questi renziani non così tanto renziani da seguire il capo fino alla crisi? Quali sono i nomi da tenere d’occhio? Un anno fa il primo citato dal Corriere era quello di Giuseppe Cucca, già segretario del Pd in Sardegna, alla sua seconda legislatura a Palazzo Madama. Capogruppo d’Italia viva alla commissione Giustizia al Senato, è l’uomo delle battaglie sulla prescrizione. Nel febbraio del 2020 i quotidiani notavano come in commissione si muovesse in sintonia col collega del Pd, Franco Mirabelli. Nella lista dei cinque c’è poi Donatella Conzatti, trentina, già candidata alla Camera con Scelta Civica nel 2013 ma non eletta. Il seggio sarebbe arrivato cinque anni dopo, al Senato, con Forza Italia. Il 10 settembre del 2019 Conzatti non partecipa al voto di fiducia del governo Conte 2, violando l’ordine dei berlusconiani. Otto giorni dopo annuncia il passaggio a Italia viva, che definiva “una casa dei riformisti e dei liberaldemocratici, fieramente incompatibile con forze sovraniste“. Le stesse forze che in caso di ritorno alle urne farebbero il pieno di voti.

Quelli che volevano la stabilità del governo – Pure Eugenio Comincini è alla prima legislatura da senatore: è stato eletto dal Pd, dopo aver fatto per dieci anni il sindaco di Cernusco sul Naviglio e il vicesindaco metropolitano di Milano, nominato da Giuliano Pisapia, all’epoca sindaco del capoluogo lombardo. Primo giro a Palazzo Madama grazie all’elezione col Pd anche per Leonardo Grimani, già sindaco di San Gemini, in Umbria. Quando ha aderito al partito di Renzi, spiegò: “Abbiamo il dovere di contribuire alla stabilità del governo rafforzando la nostra funzione di proposta per cambiare in meglio l’Italia”. Nel caso in cui davvero Gelsomina Silvia Vono decidesse poi di non seguire Renzi e rimanere a sostenere il governo Conte non sarebbe uno scandalo: tornerebbe semplicemente alle origini. A portarla in Senato, d’altra parte, è stato il Movimento 5 stelle, dopo le esperienze da dirigente regionale d’Italia dei Valori in Calabria. Fin qui i cinque nomi tornati a girare negli ultimi giorni. Un anno fa erano sei, visto che il quotidiano di via Solferino faceva pure quello di Ernesto Magorno: sembrava porter tornare nel Pd, partito che aveva guidato nella sua Calabria. Renziano di stretta osservanza, già deputato e ora senatore, è pure sindaco del suo comune, Diamante, in provincia di Cosenza. Città dove ha sperimentato le restrizioni di Conte, addirittura prima che il premier le varasse. “La prossima volta il dpcm lo faccio io. Tutte le misure entrate in vigore ieri, io le ho disposte ma con tre mesi d’anticipo”, scherzava con Il Foglio a ottobre: dunque non è uno di quelli che considera i dpcm strumento della “dittatura sanitaria”.

Renziani ma non troppo – Tra i 18 renziani al Senato, però, quelli che alla fine potrebbero decidere di non scatenare una crisi al buio sono anche altri. C’è Valeria Sudano, siciliana di Catania, eletta all’Assemblea regionale siciliana con il Cantiere Popolare di Saverio Romano, poi transitata in Articolo 4, partito nato da una scissione dell’Udc, e da lì finita nella corrente renziana del Pd che l’ha portata a Roma. “Una mia amica“, la definiva l’ex governatore Totò Cuffaro, che di sicuro era legato a Mimmo Sudano, zio dell’attuale senatrice renziana e a sua volta titolare di un seggio a Palazzo Madama con l’Udc. Viene dal centrodestra, da Forza Italia, anche Vincenzo Carbone, titolare del seggio conteso da Claudio Lotito: la giunta per le elezioni ha già dato ragione al presidente della Lazio ma sul caso deve votare l’aula di Palazzo Madama. Tra gli ex dem d’Italia viva tutt’altro che in guerra con il governo va indicato Mauro Marino, un passato nella Margherita, tre legislature al Senato sempre col Pd, partito che si era candidato a guidare – senza successo – nella sua Regione, il Piemonte. E poi anche Annamaria Parente, secondo mandato in corso e da pochi mesi al vertice della commissione Sanità. Presiede la commissione Difesa, invece, Laura Garavini, che però viene indicata come una renziana di osservanza strettissima. Come Nadia Ginetti, Daniela Sbrollini, il capogruppo Davide Faraone, la ministra Teresa Bellanova, il tesoriere Francesco Bonifazi, già l’uomo della cassa ai tempi della scalata al Pd: sono tutti uomini vicinissimi al capo. Finora lo hanno seguito sempre e dovunque. Finora.

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