Indagavano su corruzione, criminalità e degrado ambientale. Secondo il rapporto annuale 2020 sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere, sono cinquanta i giornalisti che quest’anno sono stati deliberatamente uccisi perché semplicemente facevano il loro lavoro. Molti di loro hanno perso la vita durante manifestazioni e proteste, soprattutto in paesi come Iraq, Afghanistan, India e Pakistan. Anche se, con otto professionisti dell’informazione morti, il paese più pericoloso è il Messico, dove coloro che indagano sui legami tra cartelli della droga e politica sono particolarmente a rischio. In Iran, l’esecuzione del 12 dicembre di Ruhollah Zam, afferma Rsf, ha segnato la prima condanna a morte a un operatore dei media dopo 30 anni. Mentre in Iraq sei giornalisti sono stati uccisi da sconosciuti con colpi di arma perché riferivano delle proteste contro il governo. Così come in Afghanistan, dove rimangono sconosciuti i responsabili dell’omicidio di almeno cinque operatori dei media. Stesso paese in cui una presentatrice televisiva è stata uccisa per aver sostenuto una campagna per una più adeguata protezione delle professioniste del settore.

Effetto Covid – Un impatto inquietante sulla libertà di stampa quest’anno l’ha avuto anche la crisi sanitaria: “Secondo i dati non esaustivi” di Rsf il numero di arresti, anche arbitrari, per i giornalisti si è quadruplicato tra i mesi di marzo e maggio 2020 con lo scoppio della diffusione del Coronavirus nel mondo. Tra l’inizio di febbraio e la fine di novembre 2020, questo tipo di violazione da solo ha rappresentato il 35% degli abusi registrati (a fronte di violenza fisica o minacce, che corrispondono al 30% delle violazioni registrate). Inoltre, mentre la maggior parte dei giornalisti arrestati viene detenuta solo per poche ore, o anche pochi giorni o settimane, 14 giornalisti arrestati in relazione alla loro copertura dell’epidemia sono ancora dietro le sbarre fino ad oggi. “È inaccettabile che alcuni nostri colleghi paghino con la loro libertà, la ricerca della verità”, scrive Rsf.

È infatti in Asia, continente in cui è apparso il coronavirus e che concentra la maggior parte delle violazioni della libertà di stampa registrate in relazione alla pandemia, che si trova il maggior numero di detenuti che lavoravano sul Covid-19: 7 in Cina, 2 in Bangladesh e 1 in Birmania. L’ultima è la blogger cinese Zhang Zhan, che aveva raccontato della diffusione del covid-19 a Wuhan: è stata condannata a 4 anni con l’accusa di aver fornito “false informazioni” e di aver concesso “interviste a media stranieri”. Era già in carcere dal maggio scorso.

Nella regione del Medio Oriente, dove diversi paesi hanno approfittato dell’epidemia per rafforzare il controllo sui media e sull’informazione, 3 giornalisti sono ancora detenuti per articoli relativi all’epidemia di coronavirus: 2 in Iran e 1 in Giordania. Nel continente africano è ancora in carcere 1 giornalista ruandese per aver ufficialmente “violato le regole di reclusione”.

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