di Carlo Geat e Sofia Cataffo

Nel calcolare gli effetti economici dei cambiamenti climatici, gli economisti hanno proposto spesso stime quantomeno ottimistiche, che prevedono un calo di pochi punti percentuali del Pil nei prossimi decenni. Secondo il professore australiano Steve Keen, Distinguished Research Fellow allo University College di Londra, queste stime sarebbero totalmente inaffidabili perché frutto di una serie di approssimazioni grossolane.

In un recente articolo scientifico, tradotto in italiano da Rethinking Economics Italia (disponibile cliccando qui), Keen ha realizzato una rigorosa analisi critica della ricerca economica sui cambiamenti climatici sviluppata dagli economisti della scuola neoclassica, corrente di pensiero preponderante nella scienza economica.

L’economista australiano riporta nella sua analisi decenni di pubblicazioni scientifiche dei principali economisti climatici, tra i quali il premio Nobel per l’Economia 2018, William Nordhaus, evidenziandone lacune e gravi errori logici e metodologici. La superficialità nello studio delle conseguenze economiche dei cambiamenti climatici ha portato questi studiosi a una sostanziale sottovalutazione del fenomeno, e a sostenere che gli effetti negativi sull’economia causati dati cambiamenti climatici sarebbero quasi del tutto bilanciati da altrettanti effetti positivi.

Il fatto che alcuni Paesi possano risentire del cambiamento climatico più di altri è facilmente intuibile. Ma appare poco credibile che alcuni Paesi possano addirittura trarre un beneficio economico da un riscaldamento globale di 3 o 4 gradi Celsius, che secondo la maggioranza dei biologi e degli scienziati climatici rappresenta al contrario un serio pericolo per la sopravvivenza della vita sulla Terra.

Nonostante ciò, la visione di questi economisti ha predominato per anni tra coloro che avrebbero dovuto contrastare il cambiamento globale. Perfino l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), l’organismo dell’Onu per il controllo e lo studio dei cambiamenti climatici, nel suo report del 2014 dava credito a molte delle ipotesi alla base della ricerca di economisti neoclassici come Nordhaus. Ipotesi, secondo Keen, totalmente sbagliate.

La maggior parte della ricerca economica sui cambiamenti climatici si basa su tre approcci. Il primo consiste nell’utilizzare le stime degli effetti dei cambiamenti climatici su diversi settori (come agricoltura o silvicultura) e calcolarne l’effetto cumulativo sull’economia. Con il secondo, invece, si ricava la relazione attuale tra Pil e temperatura, e si utilizzano tali dati per fare previsioni per il futuro. L’ultimo consiste invece nel raccogliere le opinioni di esperti con dei sondaggi.

Con due sole eccezioni, le stime degli economisti prevedono un impatto negativo molto ridotto, a volte addirittura positivo, dei cambiamenti climatici sull’economia (grafico dal report IPCC 2014, riportato nel paper)

Cosa fa Keen? Applica una logica rigorosa a ciascun tipo di approccio, evidenziandone i problemi e le contraddizioni e spiegandone le ripercussioni sulla stabilità economica globale.

Nel primo tipo di studi (stime degli effetti del clima sui vari settori), gli economisti neoclassici escludono completamente dall’analisi parti importanti dell’economia quali la finanza, i servizi e l’industria estrattiva. Settori che negli Stati Uniti rappresentano l’87% del Pil. Gli economisti mainstream giustificano questa scelta dicendo che le attività produttive in questi ambiti si svolgono al chiuso, e quindi al riparo dai cambiamenti climatici. Il problema principale di questa assunzione, secondo Keen, è che pone sullo stesso piano clima e tempo atmosferico: seguendo questa logica solo le attività svolte all’aperto come l’agricoltura o la pesca saranno dunque colpite dal cambiamento climatico. Ma l’innalzamento delle temperature globali può avere effetti imprevedibili su tutti i settori economici, colpendo ad esempio la produttività, salute dei lavoratori e l’abitabilità di intere regioni.

Gli studi che cercano invece di estendere al futuro la relazione tra Pil e temperatura non considerano i possibili eventi catastrofici che possono modificare il clima terrestre irrimediabilmente.

La terza metodologia di ricerca, infine, si basa sulla raccolta delle opinioni sul cambiamento climatico di esperti in diverse discipline. I destinatari di questi sondaggi però, secondo Keen, sono spesso economisti appartenenti ad una cerchia ristretta, che condividono opinioni simili, rendendo così questi questionari poco affidabili.

L’effetto finale di questi errori grossolani è una sistematica sottostima degli effetti che i cambiamenti climatici potranno avere sul pianeta. Le previsioni ottimistiche di questi economisti sono diffuse tra capi di Stato e all’interno di organizzazioni internazionali, e il rischio è di sottovalutare pericolosamente gli effetti dei cambiamenti climatici, non reagendo in modo e in tempo utile per prevenirne le conseguenze più catastrofiche. C’è allora da augurarsi che siano presto disponibili studi economici metodologicamente rigorosi per guidare le decisioni politiche sui cambiamenti climatici. Sono in gioco il futuro della nostra economia e quello dell’ambiente.

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