Tomáš Skhuravy di testa le prende tutte, proprio tutte: facendo sembrare improbabili campanili cross al bacio, proprio come quello di Antonio Manicone, mediano che più mediano non si può, in quel derby di ventisei anni fa. Lo slovacco con la sua aria da dio vichingo va in cielo e ovviamente quel pallone buttato lì lo prende lui, mandandolo in area: se Skhuravy domina normalmente il cielo di Marassi, assai meno consueto è vedere Kazuyoshi Naiya, ribattezzato Miura, anticipare Daniele Mannini e Pietro Vierchowod e mettere il pallone alle spalle di Walter Zenga, portando in vantaggio il Genoa.

Quella partita finirà 3-2 per la Sampdoria, e quello del 4 dicembre 1994 sarà l’unico gol di “Kazu” in Italia. Primo giapponese in Serie A, preso per una questione prettamente di marketing dal presidente Aldo Spinelli, senza esborsi e con un buon ritorno in termini di sponsorizzazioni, osteggiato da Franco Scoglio che lo chiamerà “macchietta applicata” nella sua adorabile e forbita antipatia maltrattando pure lo stuolo di giornalisti e traduttori che l’attaccante si portava dietro, l’avventura di Miura in Italia non sarà positiva. Fine dunque: un classico cliché della meteora straniera ricordata con affetto e simpatia per un gol e poco altro e con la meteora stessa che ha quel gol come storia prediletta da raccontare ai nipotini?

No, proprio no: nella storia di Kazu, e nei racconti da fare ai nipotini quel gol, seppur sia forse il picco più alto toccato nella carriera calcistica è forse l’ultima cosa da tirar fuori. A parte che se avesse nipotini (non risulta che i figli di Kazu, Ryota e Kota, entrambi giovani attori, lo abbiano reso nonno) Kazu potrebbe portarli alle sue partite, visto che gioca ancora, a 53 anni nel massimo campionato giapponese, con gli Yokohama Fc, ma potrebbe raccontare una vita decisamente da romanzo.

A partire da quel cognome, Miura, che è della mamma. Kazu nasce Naiya, ma il papà Nobu è vicino alla yakuza. Troppo vicino, e a Kazu quel mondo lì non piace: a lui e al fratello Yasutoshi interessa il pallone, e forse quel cognome è troppo ingombrante per metterlo su una maglietta. Perciò scelgono “Miura” di mamma Yoshiko, mostrando la volontà di non ereditare legami e appartenenze. Entrambi sono bravini, almeno per il livello giapponese degli anni Ottanta, quando il calcio era snobbato quasi tout court nel paese del Sol Levante. Kazu, che è più forte di Yasutoshi, sente di non poter crescere molto lì in patria: a 15 anni, decide di imbarcarsi, solo con suo fratello, per andare a imparare il gioco del pallone in Brasile.

Due ragazzini giapponesi, soli, in un mondo completamente sconosciuto senza sapere una parola di portoghese e ovviamente “indietro”, fisicamente ma soprattutto tatticamente e tecnicamente rispetto ai pari età dove si vive di calcio. È il preludio per un’altra storia comune: ragazzini con mille sogni in testa che si scontrano con le difficoltà spesso insormontabili che li separano da quei sogni e desistono, tornando a casa. Ma no, anche in questo caso Kazu strappa i cliché: resiste ai tanti momenti bui, impara, tiene duro e dopo i campionati giovanili con la Juve di San Paolo passa al Santos, poi al Palmeiras dove segna i suoi primi gol, poi al Coritiba e di nuovo al Santos, incontrando campioni, ricevendone i complimenti. Ce l’ha fatta, insomma Kazu. E nel 1990, dopo anni in Brasile in cui apprezza tutto, Kazu torna in Giappone, ma da re: ai Verdy Kavasaki è una star, con la maglia della nazionale segna a raffica e quasi porta i nipponici al Mondiale 1994, fino alla beffa di Doha contro l’Iraq, all’ultimo minuto.

Lì arriva la chiamata di Spinelli: pronto a scommettere sul calciatore più noto in Giappone: da un sondaggio risultava che Kazu era conosciuto dal 98% dei nipponici, secondo per popolarità nel 1994 solo all’imperatore, in un Paese tutt’altro che calciofilo. Ma tra Scoglio che detesta il suo traduttore più che Kazu (“Io parlo e spiego per due minuti, questo che traduce gli parla per 10 secondi: ma cosa può imparare Miura così?”), Franco Baresi che involontariamente in un contrasto gli rompe il setto nasale e gli provoca una commozione cerebrale e partite non proprio eccellenti, questa volta l’attaccante deve alzare bandiera bianca. Tornerà in Giappone, portando la nazionale fino ai Mondiali del 1998, tagliato fuori incredibilmente dall’allenatore al momento di scegliere la rosa che andrà in Francia. Tenterà ancora l’avventura in Europa alla Dinamo Zagabria ma ancora senza successo, fino all’incredibile serie di “eterni ritorni” con lo Yokohama Fc, dove gioca ancora, a 53 anni suonati, facendo segnare record su record. No, quel gol nel derby di 26 anni fa non è il minuto di celebrità di una meteora: Kazuyoshi Miura ha un’altra storia, Kazu è un’altra storia.

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