Più volte tirato in ballo negli ultimi giorni dall’ala più liberale del partito, oggi anche il portavoce del gruppo Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber, si è esposto sul tema che ha di nuovo scatenato la guerra interna alla famiglia più rappresentata in Unione europea: l’espulsione di Fidesz, il partito del primo ministro ungherese Viktor Orban, dal Partito Popolare Europeo. Parlando in videoconferenza con la stampa estera in Germania, il politico bavarese ha detto che “il tempo delle parole è finito, adesso è il momento di agire”.

Ai giornalisti Weber ha ricordato che come presidente del gruppo parlamentare del Ppe si è assicurato che la sospensione di Fidesz dalla formazione, avvenuta a marzo 2019, fosse effettiva: “È stato un segnale forte – ha dichiarato – Adesso Fidesz non è più rappresentata negli organi dei gruppi parlamentari”. E ha poi colpito duramente i membri ungherese non nascondendo la sua posizione: “Purtroppo, a causa del coronavirus, a settembre non è stato possibile escludere Fidesz“. La tempistica per prendere questa decisione è nelle mani del presidente del partito Donald Tusk, ma da statuto il voto all’assemblea del partito può avvenire solo in presenza, mentre a causa della pandemia gli incontri si stanno tenendo sempre da remoto. Così i parlamentari che mirano alla cacciata di Orban hanno deciso di organizzare una raccolta firme per l’espulsione di Tamás Deutsch, capo della delegazione ungherese colpevole di aver paragonato la clausola sullo Stato di diritto, sulla quale la maggior parte del partito è d’accordo, alla repressione nazista e comunista. Una mossa che, se dovesse ottenere i risultati sperati dall’ala più liberale, secondo fonti interne sentite da Ilfattoquotidiano.it, convincerebbe lo stesso Orban ad abbandonare sia il Ppe che il relativo gruppo all’Europarlamento prima ancora di un voto sull’espulsione del partito.

Weber, però, non motiva la sua posizione con la questione Deutsch o con il recente scandalo sessuale che ha colpito l’ormai ex eurodeputato di Fidesz, József Szájer. Bensì, il ragionamento del leader tedesco si rifà all’impasse che si è venuta a creare in sede di Consiglio Ue, con Orban e il premier polacco, Mateusz Morawiecki, che hanno optato per la strategia dell’ostruzionismo sul Recovery Fund a causa della condizionalità legata allo Stato di diritto per l’erogazione dei fondi europei: se non ci sarà un soluzione nelle prossime ore o nei prossimi giorni, ha spiegato, “ciò avrà un impatto enorme sulla fine definitiva dell’adesione”.

Sul bilancio dell’Ue, il portavoce del gruppo si è detto favorevole al fatto che tutti i Paesi arrivino insieme ad un accordo, “ma i colloqui stanno già iniziando su posizioni di ripiego. Cosa fare se non si riesce a raggiungere un accordo?”. Con l’aiuto della “cooperazione rafforzata” di un gruppo di Stati dell’Ue, ha aggiunto, è legalmente possibile per gli altri Paesi decidere in merito agli aiuti per il Covid anche senza Ungheria e Polonia. “Allora anche i fondi regionali, dai quali i due Paesi traggono grandi benefici, non andrebbero a Budapest e Varsavia”, ha avvertito. “Stiamo giocando con il fuoco”, per questo ha auspicato una depoliticizzazione del dibattito e lo stop alle azioni della Polonia e dell’Ungheria, da lui ritenute irresponsabili. Se il primo ministro ungherese Orban pensa che il compromesso negoziato non sia basato sul Trattato di Lisbona, ha concluso, c’è una sede nella quale ciò può essere chiarito: “La Corte di Giustizia europea, non con il veto”.

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Recovery, il veto di Polonia e Ungheria porta sul tavolo Ue il Piano B. Sassoli: “Possiamo adottare quelle decisioni anche a 25”

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