Alla fine non sarà per i trofei conquistati. E neanche per le oltre duecento reti messe a segno in carriera. A farlo entrare nella storia ci penserà soprattutto un’altra impresa. Perché Wayne Rooney è stato in grado di rendere i matrimoni molto più dolorosi delle separazioni. Nei suoi vent’anni di carriera non c’è tifoseria di Sua Maestà che non sia riuscito a inimicarsi. Alcune per i gol che ha segnato contro di loro. Altre nonostante i gol che ha segnato per loro. La colpa non è solo di una certa difficoltà nella gestione della rabbia o di un carattere che ha elevato il capriccio a stella cometa, bensì di una scelta. Quella di volersi issare a bandiera di una comunità per poi auto-ammainarsi poco più tardi.

Un vizio che Wayne ha assaggiato per la prima volta nel 2002. Allora aveva segnato un gol (inutile) all’Aston Villa nella finale di FA Youth Cup e poi si era alzato la maglia dell’Everton. Sotto c’era una t-shirt bianca con scritto: “Once a Blue, always a blu” (Blu una volta, Blu per sempre). Una dichiarazione d’amore che Rooney si rimangerà due anni più tardi, quando passerà al Manchester United. Un divorzio che non è andato giù ai suoi vecchi tifosi. E alla prima occasione glielo hanno fatto notare. Sempre con una scritta: “Once a Blue now a Red, in our hearts you are dead” (Una volta Blu, adesso rosso, nei nostri cuori tu sei morto). Quel ragazzo che Sven Goran Eriksson aveva paragonato a Pelé, non si era scomposto poi molto. Perché erano arrivati i gol e i trofei, la Nazionale e la fama mondiale.

Poi nel 2010 qualcosa è cambiato nuovamente. Rooney ha detto di reputare il Manchester United una squadra non più adatta alle sue ambizioni e di voler cambiare aria. Magari passando ai rivali del City. Allora per far divampare di nuovo il suo senso di appartenenza ai Red Devils è stato necessario un assegno da 180mila sterline a settimana. E Wayne si è riscoperto improvvisamente manchuniano fino al midollo. Almeno per altri 3 anni. Nel 2013, subito dopo l’addio di Ferguson, Rooney ha iniziato a vacillare di nuovo. Stavolta a tentarlo è il Chelsea. Per trattenerlo nuovamente c’è bisogno delle parole di David Moyes. E del portafogli di Glazer, pronto a garantirgli un aumento di 70mila sterline a settimana. Quel rinnovo che doveva rappresentare il prosieguo di una favola, però, si è trasformato in un incubo. Perché il suo declino era piuttosto evidente. Già a 28 anni.

Una tendenza che Moyes aveva concentrato in una parola. Durante le trattative per il nuovo contratto “Rooney venne a casa mia. Gli dissi: se mi chiedi cos’è che manca, penso che tu sia diventato un po’ soft“. In quel termine, morbido, è racchiuso tutto lo stereotipo con cui l’attaccante è stato raccontato in questi anni. La sua narrazione è stata quella di un calciatore uscito da un film western. Sporco, cattivo, ruvido. Per alcuni è nato vecchio. Per altri si è incanutito troppo in fretta. Fatto sta che il ragazzo di Croxteh è stato (quasi) sempre descritto partendo dalle sue caratteristiche fisiche. La forza delle sue gambe, il suo modo di utilizzare il corpo, la sua capacità di entrare in tackle, il suo sacrificarsi per i compagni. Rooney è diventato simile a Gondrano, il cavallo della Fattoria degli Animali di Orwell che ogni giorno si riprometteva di lavorare più duramente, di faticare ancora di più.

Giusto, almeno in parte. Perché in campo era un manovale capace di progettare come un architetto. Wayne è stato troppo e tutto insieme. Un calciatore completo che aveva dribbling, visione di gioco, capacità di aprire gli spazi, tiro. E soprattutto sapeva segnare. Un gol dietro l’altro. Fino a diventare il miglior marcatore della storia dello United, il secondo più prolifico nella storia della Premier League. Ha giocato dappertutto o quasi. Punta, trequartista, esterno d’attacco, centrocampista, addirittura terzino. Eppure in pochi sembrano ricordarsene ora, visto che fin troppo spesso viene lasciato fuori dalle liste dei migliori della sua generazione. Una distorsione dovuta agli eccessi della sua vita privata e delle fratture che hanno caratterizzato i suoi rapporti con tifosi e allenatori. Infortuni e scarsa applicazione nella fase atletica hanno fatto il resto. Così quando la sua forza fisica ha iniziato ad asciugarsi, la sua stella ha smesso a brillare. Improvvisamente.

Mourinho ha preso particolarmente a cuore il suo caso. Ma non nel senso sperato da Wayne. Il portoghese si è presentato allo United dicendo che non avrebbe mai schierato il suo attaccante da numero 6, a centrocampo. In una fase ancora stordita in fase di ricostruzione, Rooney ha segnato un gol nelle prime 7 partite. Abbastanza per perdere lo status di titolare inamovibile. “Nella finale di Europa League ho giocato un minuto, sono stati momenti imbarazzanti“, ha detto. L’addio arriva nel 2017, quando Rooney torna all’Everton. Qualcuno prova a raccontare che si tratta di una favola. Ma stavolta non ci crede nessuno. “Ha un corpo da quarantenne“, commenta Rio Ferdinand. In effetti la sua mobilità non è più quella di una volta. Wayne segna 10 gol in 31 partite. Un po’ poco per quelle che erano le premesse. La sua avventura travestita da fiaba dura 12 mesi. “Mi hanno chiarito fin da subito che se fosse arrivata un’offerta sarebbero stati ben felici di accettarla”, ha spiegato. “Così ho detto che non ho intenzione di restare perché non voglio essere un peso morto”. Il resto della storia parla di due stanche annate con la maglia del DC United prima del trasferimento al Derby County, nel purgatorio della Championship inglese. Una scelta che sa di ridimensionamento. Anche perché la squadra che Brian Clough guidò al titolo ora è ultima in classifica. E dopo aver esonerato Cocu ha deciso di affidare a Rooney il ruolo di allenatore-giocatore. Un incarico che potrebbe avvicinare ancora di più la fine di una carriera che per qualcuno era tramontata già qualche anno fa.

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