“Non so cosa stia succedendo, la gente è impazzita, guardi mi viene da piangere. Ringrazio tutti, anche a nome dei miei figli”. Raffaella Orfei ha la voce rotta dall’emozione mentre racconta come sia cambiato tutto nel giro di ventiquattr’ore. Ieri è stata pubblicata dal nostro sito la sua storia di “lavoratrice fragile” che si è ritrovata senza lavoro perché dichiarata “inidonea” a fare le pulizie al Poligrafico dello Stato per i rischi di contagio legati all’immunodepressione e alla terapia salvavita con cui tenta di contenere un tumore al quarto stadio.

Il giorno stesso è partita tra i lettori una corsa solidale. “Quando ho visto gli accrediti sono rimasta senza parole, erano bonifici per diverse migliaia di euro equivalenti a molti stipendi”, racconta la donna, il cui assegno mensile ammonta a circa 590 euro. “Ho contattato queste persone per dir loro che ero pronta a restituire le somme perché io volevo lavorare, non cercavo solidarietà umana. Mi hanno risposto di tenerli, avendo compreso che il mio stipendio di per sé non mi permette di vivere ma di sopravvivere. Ho spiegato loro che non mi aspettavo tanto e che se ho denunciato la mia situazione è perché voglio che il legislatore faccia la sua parte, mettendo le persone come me nelle condizioni di stare a casa, se sono malate, o di lavorare se possono e ne hanno bisogno”.

Lo vuole tanto, Raffaella, che ieri è tornata dal medico del lavoro e, sentita l’oncologa, è riuscita a ottenere il giudizio di idoneità che le permetterà di rientrare. “Il medico non voleva cambiarlo, voleva anzi prorogare l’inidoneità al 31 gennaio 2020. Gli ho risposto che tanti immunodepressi in questo momento non hanno scelta, io fra questi. Devo dar da mangiare ai miei figli e i sacchi della spesa che Emergency mi porta a casa non bastano: c’è l’affitto da pagare, le bollette, la rata dell’auto. Io devo lavorare”. Forte di quel giudizio, è tornata a bussare all’azienda che (meritevolmente) ha deciso di non procedere al licenziamento pur avendone diritto, per chiedere di essere reinserita al suo posto, con tutte le garanzie del caso. Nel pomeriggio l’incontro col coordinatore. “E’ andato bene, c’è stata una grande disponibilità”, racconta Raffaella che però non ha dimenticato di essere stata convocata a settembre e avvertita del possibile licenziamento per esaurimento del “comporto di malattia”. “Mi sembra che ci sia una seria volontà di reintrodurmi al lavoro con le opportune misure, questo è quello che volevo”, dice soddisfatta.

La storia sembra avviata a lieto fine ma lascia sospesi gli interrogativi di fondo da cui è partita. La questione dei “lavoratori fragili” si trascina da mesi irrisolta, dopo che le tutele del Cura Italia che equiparavano l’assenza per malattia al ricovero ospedaliero sono saltate per mancanza di fondi (circa 270 milioni di euro) e irrisolto è rimasto il nodo dei lavoratori che svolgono mansioni che non si possono fare da casa: operai, pulitori, trasportisti, receptionist e così via. Una galassia di migliaia di persone con patologie croniche gravi delle quali lo Stato non si fa carico, lasciando che il soccorso arrivi dalla mani di privati, tra aziende che decidono di non licenziare avendone la possibilità o dei cittadini che spontaneamente si mobilitano per aiutare, quando la gravità delle circostanze lo impongono. Come nel caso di Raffaella che ora dice: “Sono felice di questa tormentata esperienza, dimostra che ci sono diritti che gli italiani considerano irrinunciabili, tanto da sentirsi di doverli garantire in prima persona se vengono negati o intaccati”.

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