Ho tanti amici che fanno i ristoratori e che solo pochi mesi fa hanno speso migliaia di euro per fare in modo che i loro locali fossero a norma per poter riprendere a svolgere la normale attività; tanti altri che lavorano nel mondo degli eventi, in quello dello spettacolo o del turismo e che oggi sono preoccupati per quello che sarà e io non posso che esserlo con loro e per loro.

Ma c’è anche un’altra cosa che da padre, forse egoisticamente, mi preoccupa di questo secondo probabile lockdown, “stop and go” o come preferite chiamarlo; che Marco e Giovanni ritornino ad una didattica a distanza al 100% e a tempo indeterminato, che perdano la possibilità di andare a scuola, di incontrarsi coi loro compagni di classe, sia pure a distanza di sicurezza e con mascherina, che si trovino nuovamente a fare lezione tramite computer o tablet (non chiamatela scuola, perché la scuola è un’altra cosa).

Marco, che frequenta la prima liceo, da qualche giorno è già a casa e purtroppo mi sento spettatore di uno spettacolo cui ho già assistito e che non mi è piaciuto per nulla. Nei mesi del primo lockdown ho visto Marco e Giovanni spegnersi poco per volta, passare dall’entusiasmo del non doversi alzare presto per andare a scuola, all’apatia dell’accendere meccanicamente il computer per leggere schede inviate via email o sentire parlare i loro insegnanti senza il piacere di vederli dal vivo o, anche, quello del riuscire a non farsi vedere mentre di nascosto passavano un bigliettino ad un compagno, perché scuola è anche questo.

Lo hanno fatto comunque diligentemente, lo abbiamo fatto tutti. Era giusto farlo e forse sarà altrettanto necessario a breve, ma forse con grande ingenuità spero che almeno per la scuola questa volta la storia sia diversa. In effetti quello che nei mesi di chiusura, forse, a loro e a me è mancato di più, è stato proprio il piacere di incontrarsi. La socialità interrotta. Per questo motivo mi ha colpito l’iniziativa di un gruppo di genitori di Milano che hanno dato vita ad un progetto che a bocce ferme sembrerebbe folle: la Yurta condivisa.

Se non sapete cosa sia una yurta non preoccupatevi, siete in ottima compagnia. Io stesso non ne avevo idea fino a poco tempo fa. La yurta è una tenda usata dai popoli nomadi dell’Asia, un luogo di incontro e condivisione che questo gruppo di un centinaio di genitori sta cercando con tutte le forze (e pochi mezzi purtroppo) di realizzare in un giardino pubblico del capoluogo lombardo. Nel loro progetto la yurta sarà un punto di riferimento per bambini e genitori, ma anche per anziani e adulti, senza dimenticare le famiglie che vivono in case di pochi mq e non hanno grandi possibilità economiche.

La prima vera yurta urbana, dove dar vita a quello che in inglese si chiama community hub, in sintesi un luogo di scambio, incontro e condivisione per famiglie. Sfruttando soprattutto gli spazi aperti, ma avendo un punto di riferimento, ad esempio, per incontri con specialisti cui rivolgere le mille domande che passano nella testa di un genitore, di certo in tempi di pandemia, ma anche in tempi, speriamo non troppo lontani, di ritrovata normalità.

Nella yurta, o attorno ad essa, si potrà giocare, lavorare, condividere esperienze, vivere la propria infanzia o la propria genitorialità. O anche, semplicemente, incontrarsi. Spero proprio ci riescano, e se anche voi volete contribuire alla creazione della Yurta urbana potete farlo. Ci vediamo nella Yurta, adesso anche voi sapete cosa sia e quanto bene possa fare.

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