di Simone Ogno (Re:Common) e Luca Iacoboni (Greenpeace)

Cosa rispondereste se vi chiedessero dei soldi per finanziare un progetto pericoloso per un’area meravigliosa e fragile come l’Artico? Sì, proprio l’Artico: la casa degli orsi polari, uno degli ecosistemi più importanti e delicati del pianeta, già messo in ginocchio dai cambiamenti climatici causati dall’uso di gas, petrolio e carbone.

Probabilmente se chiedessero dei vostri soldi per un progetto del genere direste di no. E invece, senza saperlo, rischiamo tutte e tutti di finanziare un impianto di liquefazione di gas che prende il nome di Arctic-LNG 2, situato nella penisola di Gydan, nell’Artico siberiano. Lo faremmo con soldi pubblici, circa 1 miliardo di dollari, che Sace – ente di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, e dunque controllata dal ministero di Economia e finanza – metterà a copertura dell’investimento.

E non è tutto: qualcuno di noi rischia di pagare questo investimento addirittura due volte. Prima con soldi pubblici, e poi con quelli privati. Intesa Sanpaolo, una delle più grandi banche europee, da noi sollecitata in merito, non ha infatti smentito il proprio coinvolgimento nel progetto. Un silenzio che assume i connotati di un preoccupante assenso, sul quale grava un precedente: nel 2016 l’istituto torinese aveva finanziato con 750 milioni di euro – 400 dei quali garantiti proprio da Sace – il progetto Yamal LNG, un altro impianto di liquefazione di gas nella zona artica.

Di questo “coinvolgimento italiano” non si sapeva nulla fino a che Re:Common e Greenpeace non sono venute a conoscenza di un documento riservato e hanno chiesto conferma ai diretti interessati. Intesa Sanpaolo, come già anticipato, si è nascosta dietro un muro di silenzio. Sace ha invece confermato il proprio potenziale coinvolgimento, appellandosi a una rigorosa verifica economico-finanziaria e di conformità alle normative ambientali.

I dettagli di questo progetto fossile parlano di un enorme impianto di liquefazione di gas della società russa Novatek, pensato per esportare gas fossile estratto dal vicino deposito di Utrenneye. L’impianto, che sarà operativo dal 2023, sarà in grado di produrre più di 20 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno, proveniente dagli enormi giacimenti presenti sotto la calotta artica. Una volta trasformato in forma liquida, il gas sarà esportato verso Asia ed Europa, sfruttando le rotte marittime apertesi a causa dello scioglimento dei ghiacci.

Il costo totale del progetto è di 21,3 miliardi di dollari. L’ingente somma servirebbe a garantire le società private italiane coinvolte in quest’opera: in particolare Saipem – controllata di Eni, e già facente parte della joint venture per la realizzazione del progetto – e molto probabilmente anche Intesa Sanpaolo.

Non solo riteniamo sia una follia continuare a estrarre gas in Artico, ma è ormai ben noto come le attività estrattive e il ciclo di produzione e distribuzione del gas liquefatto provochino impatti gravissimi per l’ambiente e il clima, a causa delle perdite di metano che avvengono durante il processo di esportazione e importazione. Le condizioni ambientali estreme della regione in cui si vorrebbe realizzare questo progetto non fanno poi che aumentare le possibilità di fuoriuscite e incidenti, minacciando un ecosistema già fragile come quello artico.

Negli ultimi mesi, la regione è stata colpita da più di 300 grandi incendi e da uno dei peggiori disastri petroliferi nella sua storia. Inoltre, nel solo mese di giugno, gli incendi nelle foreste della Siberia hanno causato il rilascio di una quantità di anidride carbonica pari a quella emessa dalla Norvegia in un anno. A questo si aggiunge il sempre più rapido scongelamento del permafrost, che oltre a rilasciare enormi quantità di gas serra in atmosfera, potrebbe aumentare il rischio di nuove pandemie globali.

Il governo e i grandi gruppi italiani, come Eni o Intesa Sanpaolo, parlano sempre più spesso di sostenibilità, di green e di economia circolare. La realtà è invece purtroppo ben diversa, con lo Stato italiano pronto a garantire investimenti legati a progetti fossili in uno dei luoghi più delicati del pianeta. Facendo così gli interessi (fossili) di aziende che sul suolo nazionale si dicono, a parole, paladine della sostenibilità. E ignorando invece gli interessi dei cittadini.

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