“Sono i lavoratori che mi chiedono di licenziarli”. A Rocco Salamone, albergatore di Milano, costa caro ammettere quello che sta accadendo alla sua attività. Quaranta camere e tredici dipendenti, per un’attività che va avanti da oltre vent’anni. “Alcuni dei miei dipendenti sono con me dall’inizio, dire addio significa buttare esperienza e competenze: è come abbattere l’albergo”, spiega Salamone, che è presidente di Atr, associazione di albergatori di Città metropolitana di Milano legata a Confesercenti, che nell’ultimo rapporto sulla crisi legata al Covid parla di “colpo senza precedenti al lavoro autonomo, con gravi ripercussioni su quello dipendente”, con quattro attività su dieci che segnalano “la necessità di ridurre il personale”.

Ma se i più attendono che il governo sblocchi i licenziamenti per motivi economici, sono molte le aziende che hanno già interrotto i rapporti di lavoro con i propri dipendenti. “I licenziamenti per assenza ingiustificata sono triplicati”, racconta a ilfattoquotidiano.it Emanuele Spini, responsabile Politiche del lavoro di Confesercenti in Lombardia. Il suo è un osservatorio privilegiato per capire quello che accade al tessuto economico. Ma la vista è desolante: “Quella per assenza ingiustificata è una procedura di licenziamento da sempre residuale, mentre oggi sta diventando un’alternativa”. Il motivo? Spini azzarda alcune ipotesi, quelle che la sua esperienza gli suggerisce. “È possibile siano in corso accordi tra datori e dipendenti, ma è altrettanto facile che siano i lavoratori a scegliere questa strada”. In teoria, basta assentarsi per una settimana senza presentare certificato medico o altra giustificazione. È quanto necessita il datore per avviare un licenziamento per giusta causa. Perché farsi licenziare? Le possibili motivazioni sono peculiari, almeno quanto la crisi in atto. “A fronte dei mesi che spesso sono necessari per percepire la cassa integrazione, la disoccupazione coperta dalla Naspi ha tempi più brevi e in un primo periodo è più generosa”, chiarisce Spini. Che aggiunge: “Inoltre la Naspi ti permette di rimetterti a cercare occupazione, compresa quella in nero, purtroppo, mentre se sei in cassa integrazione resti nella disponibilità di un datore che magari in questo momento non è in grado di offrire prospettive”.

Insomma, mentre l’Italia attende novità su ammortizzatori sociali e sblocco dei licenziamenti, e il governo già si interroga sui numeri della ripresa per il prossimo anno, settori come quello del turismo, nella migliore delle ipotesi vivono alla giornata. “Ottobre è iniziato al dieci per cento della nostra capacità ricettiva”, racconta l’albergatore Salamone. E conferma tutto: “Chi non può permettersi di aspettare tre o quattro mesi mi chiede di andarsene per prendere la Naspi e cercare alternative”. E ancora: “Io per primo fatico a preparare le buste paga dato che l’Inps non mi ha ancora autorizzato la Cig di settembre”. Nel confronto con i colleghi le preoccupazioni di ognuno prendono forma: “Nei prossimi mesi temiamo di dover lasciare a casa il sessanta per cento dei dipendenti, e nella maggioranza dei casi si tratta di tempi indeterminati”. Ai quali vanno aggiunti i tanti autonomi, anche nell’indotto, e chi ha un contratto a chiamata. Persone già ferme da mesi, costrette ad abbandonare un settore in ginocchio dove i tempi di recupero si prospettano lunghi. “A Milano non si riparte prima del 2023”, dichiara Salamone. E avverte: “Non pensate che sarà tutto come prima. La ripartenza non potrà che essere graduale, ed è probabile che la capacità ricettiva di città come Milano si riduca, con ricadute sulla possibilità di sostenere l’organizzazione di grandi eventi che fino a ieri portavano milioni di persone da tutto il mondo”. Settembre, per esempio, ha visto 330mila arrivi a fronte degli oltre un milione dello stesso periodo dell’anno precedente.

Intanto e con le casse vuote, gli alberghi si preparano a versare tasse come quella di soggiorno relativa ai primi mesi del 2020. I conti sono presto fatti: una struttura con cinquanta camere può arrivare a versare al comune circa 20mila euro al mese. “Alcuni di noi non li hanno. Molti chiuderanno definitivamente prima dell’inverno”, conclude Salamone. Quelle dell’alberghiero, del turismo in generale e della media ristorazione sono alcune delle aree che più preoccupano l’Ufficio Economico di Confesercenti, che è a fine settembre è stato costretto a confermare le precedenti stime: 90mila aziende a rischio chiusura e 20mila nuove attività in meno nel solo 2020. “In Italia rappresentiamo 350mila piccole e medie imprese del commercio, del turismo, dei servizi, dell’artigianato e dell’industria”, spiega il responsabile dell’Ufficio, Antonio Oliva. “Aziende che danno occupazione a oltre un milione di persone e che tra autonomi e dipendenti potrebbero lasciare a casa più di 300mila lavoratori solo nei settori di commercio e turismo”. Nella realtà rappresentata dall’associazione di categoria, il 65% delle attività è a gestione familiare. “C’è chi stringe i denti, certo, perché chiudere è un evento traumatico, soprattutto per chi ha superato i cinquant’anni e non ha prospettive”, spiega Oliva commentando alcuni dati. “Ma la realtà che hanno di fronte è ancora di totale incertezza, molti non ce la faranno”

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