Otto anni e tre mesi per comunicare al legale della persona condannata che può estrarre la copia della sentenza, studiarla e così preparare un eventuale atto di appello. Se esistesse un campionato del mondo di lentezza della giustizia, la storia che rimbalza dal Tribunale di Napoli potrebbe ambire a una medaglia. E riguarda, attenzione, non uno di quei maxi processi di criminalità organizzata, dove il numero delle persone alla sbarra e la complessità delle vicende trattate certamente non potrebbe giustificare, ma quanto meno spiegare la lentezza dei tempi e qualche problema nelle notifiche. Riguarda invece un banalissimo caso di ricettazione di un assegno. Che poi, tanto banale non è, per la vita dell’imputato – una donna condannata a due anni e sei mesi e al risarcimento delle spese – e per quella delle parti lese. Dietro ogni dibattimento – questo si è svolto alla sezione distaccata di Marano (Napoli) – ci sono storie di sofferenze personali che non vanno minimizzate, ed è per questo che la sua “ragionevole durata” è entrata tra i principi costituzionali del “giusto processo”.

Non è ragionevole aspettare l’ottobre 2020 per apprendere le motivazioni di una condanna emessa nel luglio 2012 e provare a ottenere un’assoluzione in appello. Eppure è andata così, e la storia la rende nota l’avvocato Gaetano Laghi sulle pagine de ‘Il Mattino’. La pec con l’avviso di deposito, tecnicamente un ‘estratto contumaciale’, gli è arrivata soltanto ieri. La signora era infatti contumace al processo. È stata poi condannata. Se dovesse rinunciare all’appello, potrebbe finire in carcere. Ma otto anni dopo, avrebbe ancora un senso? Forse avrà persino dimenticato di essere stata denunciata. E sarà difficile pure per il suo difensore riannodare i fili degli atti istruttori e processuali che hanno determinato il verdetto sfavorevole. “Otto anni per la notifica di un estratto contumaciale è un tempo che supera largamente ogni soglia di ragionevolezza e tollerabilità” è il commento dell’avvocato Laghi. Come non essere d’accordo?

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