“È un massacro, una strage di innocenti che si sarebbe dovuto evitare. Ciò che è accaduto è gravissimo. L’ospedale di Verona andava chiuso subito, per sanificarlo e trovare l’origine del Citrobacter”. Francesca Frezza, veronese, è la madre che si è battuta dopo la morte di sua figlia Nina, ammalatasi al Borgo Trento e morta al Gaslini di Genova a causa di una lesione cerebrale. È la mamma che con la sua battaglia personale, andando a manifestare davanti all’ingresso del nosocomio scaligero, considerato un’eccellenza della sanità veneta, è riuscita ad ottenere la chiusura dei reparti infetti. E ha permesso di scoperchiare numeri impressionanti sulle infezioni da batterio killer: “Dal 2018 i bambini colpiti sono 96, i cerebrolesi sono 9 e i deceduti sono quattro. Tra questi anche mia figlia Nina, che è nata l’11 aprile 2019 ed è morta il 18 novembre successivo”, così sintetizza la signora Francesca che ha appreso dell’esistenza di una prima relazione redatta da una commissione regionale e che il governatore Luca Zaia ha assicurato di voler inviare a tutti i genitori dei piccoli interessati, oltre che alla Procura di Verona che ha aperto un’inchiesta, al momento contro ignoti.

Il Citrobacter si trovava in un rubinetto di un lavandino usato dal personale della Terapia intensiva neonatale, chiusa lo scorso giugno insieme all’Ostetricia-Punto Nascite e alla Terapia intensiva pediatrica. “Le infezioni sono cominciate nel 2018, a Verona. Le infezioni ci sono in tutti gli ospedali, ma si devono prendere provvedimenti, quando si verificano. Invece in questo caso non si è fatto niente. Dal 2018 si è aspettato fino al 12 giugno scorso prima di chiudere i reparti”. L’atto di accusa formulato da Frezza è pesante. Le sue parole sono identiche a quelle che ha messo a verbale pochi giorni fa, durante un interrogatorio in Procura.

“Non è stato fatto niente… – ripete – e alla fine la decisione è stata presa perché io ho chiesto la chiusura. Sono andata davanti alle porte dicendo che non mi sarei mossa finché non prendevano provvedimenti. Solo dopo hanno preso la decisione. Eppure lo sapevano anche loro che quel batterio c’era, lo sapevano dal 2018. Credo non ci sia altro da aggiungere”, ripete. E oggi, dopo la pubblicazione degli stralci della relazione, è corsa davanti all’ospedale chiedendo le dimissioni dei vertici dei reparti e della Direzione sanitaria perché, sostiene insieme al fratello Matteo, avvocato, che, con quanto dimostrato dalla relazione, chi aveva la responsabilità di quei reparti non possa restare al suo posto. Reparti che, proprio a partire da oggi, ripartiranno.

E mamma Francesca ne ha di particolari da aggiungere: “Ho fiducia nella magistratura, ho fiducia che riusciranno ad accertare cosa è accaduto e quali sono le responsabilità perché a Verona le infezioni, le conseguenze cerebrali e le morti si sono succedute, sono state reiterate nel tempo. Dopo il secondo caso avrebbero dovuto chiudere tutto. Chiedo: perché non l’hanno fatto? Se lo avessero fatto, la mia Nina sarebbe viva e invece è morta con atroci sofferenze”. I quattro piccoli deceduti nel reparto interno dell’ospedale della Donna e del Bambino di Verona sono Leonardo (alla fine del 2018), Nina (novembre 2019), Tommaso (marzo 2020) e Alice (16 agosto 2020).

L’elenco è contenuto nella relazione preparata dal professore Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’università di Padova e coordinatore della commissione di verifica nominata dalla Regione Veneto. L’organo ispettivo è composto anche dai professori Elio Castagnola, primario degli Infettivi dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, Gian Maria Rossolini, docente di Microbiologia dell’ateneo di Firenze, e Pierlugi Viale, ordinario di Malattie infettive a Bologna, dal direttore di Pediatria e Neonatologia dell’Usl Berica, Massimo Bellettato, e dai dirigenti di Azienda Zero Mario Saia ed Elena Narne.

Il rubinetto, sostengono, era letteralmente “colonizzato” dal batterio killer (oltre che da altri batteri) che era arrivato dall’esterno. Ma evidentemente qualcosa non ha funzionato anche nel rispetto delle misure d’igiene imposte al personale nei reparti ad alto rischio (lavaggio delle mani, cambio dei guanti, utilizzo di sovrascarpe, sovracamici, calzari e mascherina). Inoltre è da accertare se sia stata usata acqua dell’acquedotto anziché acqua sterile. Il racconto di Francesca Frezza, già riportato da ilfattoquotidiano.it a giugno, è dettagliato: “Mia figlia ha sofferto in modo indicibile. I medici l’hanno intubata, volevano operarla, non hanno mai usato cure compassionevoli, nessuna terapia del dolore. La piccola era al limite delle forze quando, finalmente, sono riuscita a portarla via, al Gaslini di Genova. Ha passato i suoi ultimi giorni in un hospice, serena. Se n’è andata senza urlare di dolore”.

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